In una lettera di famiglia datata 1943, ritrovata a Venezia da un amico di Dario, e a lui affidata per essere interpretata,  vengono citati in maniera enigmatica sia il trittico di un pittore del ‘300, sia il nome di Antonio Stradivari. Su sollecito dell’amico i due fratelli, Dario e Marco, partono per Venezia assieme alla loro sodale virtuale L.U.C.I.A, un’Intelligenza Artificiale che ormai li ha adottati come “genitori”.Qui giunti sulle tracce del trittico di Jacobello del Fiore, smembrato durante la guerra e recante anch’esso misteriose indicazioni, si troveranno coinvolti in una ricerca che li porterà a Venezia, a Parigi, a Berlino, a Cremona e di nuovo in Francia, in un carosello di viaggi, enigmi, connessioni e supposizioni, alla scoperta di  quale sia stato  il filo sottile che ha legato per sempre tra loro un pittore del ‘300, un artista del ‘700 e il più famoso liutaio d’Europa. Sulla loro pista , a loro insaputa, altri occhi che il destino  ha posto casualmente sulla loro strada, seguono vogliosi i loro spostamenti, fino all’epilogo che fornirà a tutti certezze incondivisibili. 

                   Un breve filmato di presentazione

IL CODICE STRADIVARI.mp4

              RaiRadio1

        Alessandra Rauti 

                                 presenta

         "Incontri d'autore"

                 “ Il Codice Stradivari”   

                                                  Incipit

Venezia 5 Dicembre 1943

 

Don Giulio si sistemò meglio sulla poltroncina. Infilare le lunghe gambe nello spazio angusto sotto lo scrittoio settecentesco era un esercizio che si imponeva ogni giorno con una certa severità. Una piccola mortificazione che gli ricordava come la passione per la poesia e per gli enigmi non dovesse distrarlo dalle sue mansioni di parroco.

Dedicava a quelle attività un poco del suo tempo e la scomodità della posizione lo aiutava nel suo intento.

Dall’armadio ad anta unica aperto vicino al letto, la pianeta bianca aspettava di essere indossata per la prima messa che di lì a poco avrebbe celebrato nella sottostante chiesa di Santa Eufemia.

Non dormiva più molto e spesso si alzava presto per comporre. Riattizzava il fuoco nel caminetto dello studio, metteva un po’ di braci nello scaldino di coccio vicino alla finestra e si stringeva nella veste da camera dopo essersi sommariamente sciacquato con l’acqua contenuta nella bacinella vicino al letto.  Poi si sedeva allo scrittoio e iniziava a scrivere. Attendeva così il giorno che entro un paio d’ore si sarebbe levato a est, verso la laguna, come sempre.

Anche quel giorno di dicembre 1943, la luce fredda del mattino stava entrando dalla finestra sulla sua sinistra come una lama, a illuminare l’ampio quaderno e la penna appoggiata da qualche minuto, testimone della mancanza di ispirazione che l’aveva bloccato sulle prime parole.

“Là dove poggia…”

«Don Giulio! Don Giulio!»

La voce sommessa, appena udibile, veniva da basso, dalla strada, assieme a un insistente bussare alla porta del palazzo.

Giulio scavallò le gambe e aprì la finestra che si spalancò con un sussulto.

Una folata di aria gelida e densa di umidità salmastra lo colpì in volto facendolo rabbrividire.

Affacciatosi nella nebbia, riconobbe l’amico alla porta.

Franco Boralevi, rabbino della comunità ebraica di Venezia, suo buon amico e poeta con il quale spesso si era dilettato a recitare vicendevolmente i rispettivi componimenti poetici. Appassionati entrambi di rebus e sciarade, si erano divertiti, in passato, ridendo e scherzando come se le barriere imposte dal regime non fossero mai state erette. Da qualche tempo però i loro incontri si erano rarefatti e non si trattava più di visite di cortesia. Benché la distanza tra la parrocchia e il ghetto non fosse molta, si trattava di visite fuggevoli, dopo il coprifuoco, durante le quali Giulio portava indumenti o vettovaglie a quei disgraziati attraverso una breccia nel muro che li isolava dal resto della città. Dall’altra parte, Franco lo ringraziava con un cenno della mano e poi spariva nell’ombra. Ora sembrava più magro del solito e si stringeva addosso un pastrano scuro che ne allampanava la figura emaciata.

«Franco, che ci fai per strada a quest’ora? C’è il coprifuoco!»

«Apri, presto!», disse l’altro guardandosi intorno come se avesse il diavolo alle spalle.

Giulio con un sospiro richiuse le ante, afferrò al volo una sciarpa e scese le scale di corsa per andare a spalancare il portone.

                                                                                                ............Continua.............

                     Una bella recensione di Claudio Santori

L’ultima fatica di Mauro Caneschi, “Il codice Stradivari” è un altro capitolo di quella che si profila come la saga di Lucia (Unità Logica Autoevolvente Ipercognitiva), l’IA onnisciente e invisibile che ha fatto la fortuna dei fratelli Mannelli. Questa volta l’Autore non entra in medias res, optando per un lungo prologo che sembra la diretta emanazione della dedica minacciosamente collocata in epigrafe: All’Arte che da sempre unisce gli uomini con un filo sottile mai interrotto dal passare del tempo, al gioco che da sempre danna gli uomini causando non voluti passaggi di cose e di averi, all’intelligenza e alla deduzione che forse tra poco saranno appannaggio non solo della stirpe di Caino. Lucia sembra rivoltarsi non solo contro i suoi “padri”, ma addirittura contro l’intera umanità ipotizzandone lo sterminio: la minaccia è tuttavia abilmente neutralizzata, consentendo l’avvio della vicenda.  Con una tecnica narrativa ormai collaudata e affinata dall’esperienza, l’Autore conferisce novità e respiro al consueto dribbling temporale, costruendo una storia che nasce a cavallo fra XVII e XVIII secolo, ha una sua terribile spinta propulsiva sul finire del nazifascismo e si conclude nell’epoca presente. Il lettore è coinvolto6 nell’inseguimento, con il continuo supporto dell’ineffabile Lucia, di misteriose carte redatte dal celebre liutaio Antonio Stradivari (del quale viene rivelata una fatale debolezza) e scomparse nelle pieghe del tempo, non senza lasciare naturalmente una traccia fatta di enigmi e indovinelli. Dopo colorite traversie di ogni genere, in un contesto di ricerche frenetiche fra cripte, anfratti e reperti tarlati, non senza un omicidio sospetto, alla fine i Mannelli, con l’asso nella manica di Lucia, vengono a capo del mistero e le misteriose carte saltano fuori. E sembrano veramente importanti, addirittura epocali , ma …! L’epilogo è un colpo di scena magistrale che sembra uscito da un noir francese e vale il libro!