IL GENIO DI GIOVANNI

Il Genio di Giovanni

Le ondine si allungavano pigre sulla spiaggia deserta. C’era stato mare grosso, ma ora tutto sembrava immoto, sospeso, come a riparare in qualche modo l’intenso fragore del mare che aveva scosso la costa nei due giorni precedenti. Nell’aria scura solo qualche rauco stridio testimoniava l’ingozzata di pesci fatta dai gabbiani la sera prima. Sulla destra, al limite dell’orizzonte, leggere strie rosa arancio annunciavano che il sole sarebbe sorto da poco e Giovanni si strinse nelle spalle coperte dalla felpa di cotone. Gli piaceva passeggiare di mattina presto sulla spiaggia, quando l’arenile non era ancora preso d’assalto dalla folla dei bagnanti agostani. Quando il sole fosse sorto dalle acque, avrebbe invertito il cammino e sarebbe tornato verso l’albergo che lo ospitava, pronto per fare colazione, mattiniero come sempre. Quel tratto di mare adriatico dirimpetto alle coste albanesi si frangeva a volte su coste scoscese, altre su lunghe spiagge come quella che stava calcando. Partendo dalla lontana Roma, si era illuso di poter trovare pace e serenità, ma in agosto anche quel lembo sperduto della Puglia era pieno di turisti vocianti, bambini che gridavano e gente che correva sulla spiaggia come se dovesse allenarsi per le prossime olimpiadi. L’unica quiete si trovava di mattina all’alba, quando i corridori erano pochi e alcuni addirittura lo salutavano. Si tolse gli infradito e iniziò a camminare sul bagnasciuga. Si sorprese a pensare da dove venissero quelle ondine che sciacquavano i suoi piedi nudi. Dall’Albania? O magari più a sud, dalla Grecia o addirittura dalla lontana Turchia. Sulla sabbia, tracce di quanto era accaduto nelle due notti precedenti, quando spinte dalla furia dei venti, si erano incagliate fradicie testimonianze di banchetti sul litorale di chissà quali paesi, bottiglie di plastica, qualche sacchetto, rami e tronchi di altri lidi.

A Giovanni piaceva passeggiare solo. D’altra parte, non è che avesse molte altre alternative. I suoi pochi amici in città non lo avevano accompagnato in quella vacanza. Impegnati con mogli e fidanzate, avevano avuto altri progetti estivi e lui era rimasto solo, come sempre, a scegliere una località turistica poco frequentata, con un bel mare e un albergo di poche pretese. Non era brutto, Giovanni, quanto piuttosto scialbo, poco appariscente, di carattere schivo e silenzioso, il che lo rendeva praticamente invisibile alle ragazze.

Soprattutto ad una ragazza.

E come avrebbe potuto essere altrimenti? Elena era alta, bella, irraggiungibile. Collega sul lavoro, il suo sguardo lo attraversava come se fosse trasparente. Cordiale, formale, ma fredda come il ghiaccio nei suoi confronti. Flirtava spesso e volentieri con gli altri maschi del gruppo, all’interno dell’industria chimica dove lavoravano tutti insieme anche se con mansioni diverse. Durante le mattine e i pomeriggi invernali, le risate e i momenti di relax si succedevano spesso all’interno degli uffici, davanti al distributore di bevande, per le scale. Mai con lui. I suoi colleghi erano spiritosi, pronti alle battute e alle risposte. Di media altezza, bruno, occhi marroni, spalle un poco curve, Giovanni sorrideva spesso a vuoto come un ebete, sentendosi perennemente fuori posto. Osava appena incrociare gli occhi di Elena nei rari casi in cui si incontravano, per poi abbassare i suoi mentre lei tirava dritto come se non esistesse. D’estate poi, le pause caffè si svolgevano sulla grande terrazza che copriva quasi interamente la palazzina degli uffici. Si formavano e si scioglievano capannelli spontanei che duravano qualche sorso, una tirata di sigaretta, commenti sulla direzione o sulle prodezze della squadra del cuore. Le ragazze, quelle non sposate o accoppiate, si fermavano a parlare volentieri di amori e amorazzi occhieggiando questo o quello. Le altre parlavano perlopiù dei figli e delle prossime vacanze. Lui oscillava tra un capannello e l’altro concentrandosi per infilare qualche battuta che non gli veniva mai spontanea o per confermare con cenni della testa le affermazioni dei colleghi più autorevoli.

L’acqua fredda gli aveva marmato i piedi. Alzò lo sguardo al cielo che si stava accendendo nell’alba e inciampò.

Cadde sulla sabbia facendosi schermo con una spalla per non battere la faccia. Aveva perso completamente l’equilibrio e il piede destro gli doleva. Si voltò a vedere cosa fosse stata la causa della sua caduta.

Maledetti tronch…

No, non era un tronco semisommerso che l’aveva fatto inciampare.

Dalla sabbia lambita dalle onde sporgeva un oggetto piccolo, solido, che riluceva ai primi raggi del sole.

Mentre si massaggiava la spalla a sedere sul bagnasciuga, lo osservò meglio.

Sembrava una lucerna. Una vecchia lampada ad olio.

La prese in mano imbarazzato dal pensiero che gli si era affacciato alla mente. La sua preparazione scientifica, il suo lavoro lo portavano ad escludere tutto quello che non fosse rigorosamente razionale. La chimica era una scienza. Eppure, i racconti favolosi letti da bambino, le leggende…

Una lampada. E se… pensò alzandosi in piedi con quello strano oggetto in mano. Sentiva il cuore improvvisamente accelerato. Tentar non nuoce, pensò. La sfregò su un lato, liberandola dalla sabbia. Poi sull’altro.

«Ai tuoi ordini, padrone!»

La voce gli echeggiò forte in testa, tanto che si voltò sorpreso da una parte e dall’altra. La spiaggia era deserta. Solo un camminatore, un centinaio di metri più a sud.

Iniziarono a tremargli le mani. Sfregò leggermente la lampada ancora una volta e ancora una volta sentì la voce forte e chiara.

«Ai tuoi ordini, padrone!»

«Chi sei?», balbettò

«Il Genio della lampada, e chi sennò?»

«Quello… quello dei tre desideri?», chiese Giovanni con un filo di voce.

«Esattamente. E ora che mi hai evocato, se non ti dispiace, vorrei esaudirli per potermi sdebitare come si conviene e riprendere la mia vita finalmente libero», rispose la voce.

Giovanni si appoggiò la mano destra sulla tempia poggiando la lampada per terra.

Stava impazzendo, era chiaro. Il sole dei giorni precedenti, o forse le notti passate a rigirarsi tra le lenzuola. Era esaurito. Evidentemente esaurito. Sentiva le voci. Chiaro segno che la sua salute mentale stava saltando via come un tappo di spumante. Eppure non…

«Allora?», chiese ancora la voce con un tono leggermente scocciato. «Non vorrei metterti fretta. Dati i millenni passati qua dentro, anno più anno meno fa poca differenza, ma avrei alcune cose da fare alle quali ho pensato in tutto questo tempo e se tu ti decidessi…»

Giovanni prese il coraggio a due mani. Questa cosa sfuggiva a tutto quello che conosceva della natura e dell’ordine delle cose, ma se era pazzo, tanto valeva giocare a quel gioco fino in fondo.

«Se sei il Genio della lampada, com’è che non ti vedo?»

«Sono un Jinn, un’entità incorporea, come potresti vedermi?», rispose la voce nella sua testa.

I Jinn. Ricordi delle leggende orientali gli si affollarono nella mente che sbigottita stentava a rimanere aggrappata alla realtà. I Jinn, nella cultura preislamica entità soprannaturali poste tra gli dei e gli uomini, spesso maligni, altre volte benevoli e protettivi.

«Vuoi che mi renda visibile?»

«Mi… mi farebbe piacere, sì», balbettò Giovanni ormai incapace di interrompere quel suo precipitare nella follia.

Dall’oggetto poggiato a terra uscì una sottile scia di fumo che si trasformò in una nuvoletta e poi in una densa nebbia azzurrina che prese le fattezze di un uomo alto più di due metri, dal torace ampio, nudo fino ai fianchi cinti da una fusciacca blu al disotto della quale il tronco svaniva dentro il beccuccio della lampada. Calvo, un pizzo lungo e scuro che cadeva giù dal mento e una torque d’oro massiccio al collo, protendeva verso di lui due massicce braccia colme di bracciali splendenti, sorridendo con grossi denti e un enorme paio di occhi azzurri.

«Eccomi!», disse. «Ai tuoi ordini. Ovviamente questa è una delle tante forme che posso prendere per rendermi visibile. Di solito è quella che incute meno timore.»

«Meno timore…», ripeté imbambolato Giovanni.

«Suvvia, esprimi il primo desiderio.»

Giovanni rifletté velocemente. Non era ancora del tutto sicuro di non essere impazzito, ma l’occasione di ottenere tutto quello che desiderava dalla vita era troppo forte per trascurare anche solo la possibilità che per una volta… Doveva giocarsela bene!

«Vorrei…»

«Vorresti?»

Un attimo, pensò Giovanni. Se chiedo che Elena si innamori di me, chi mi garantisce che funzioni per sempre? L’amore viene e va. Il Genio potrebbe farla innamorare di me, ma poi lei potrebbe ripensarci… No, doveva escogitare un modo per essere sicuro che durasse tutta la vita. Un filtro d’amore! Ecco cosa ci voleva. Ogni volta che avesse visto diminuire l’amore di Elena, avrebbe potuto riaccendere la fiamma della sua passione.

«Posso farti una domanda che non sia interpretata come un desiderio?»

«Certo», rispose il Genio incrociando le braccia, «ti avverto però che ci sono due condizioni. Mezz’ ora dopo il sorgere del sole, non potrò più esaudire i tuoi voleri e qualunque cosa tu abbia desiderata sarà completamente tua solo se verrà portata lontana almeno dieci metri da questa sabbia, altrimenti svanirà entro un’ora. Quindi ti consiglio di sbrigarti.»

Giovanni guardò verso il mare. La palla di fuoco stava emergendo dalle acque e un brivido lo scosse tutto. Doveva essere calmo. Freddo come le onde che gli lambivano le caviglie. Razionale.

«Allora, tieni conto che questa è solo una domanda e non un desiderio. Hai la possibilità di procurarmi filtri, pozioni, decotti e similia assieme alle loro peculiarità?»

«Se è solo questo…», rispose il Genio squadernandogli davanti una pergamena contenente un lunghissimo elenco.

«Filtro per invulnerabilità alle frecce e alle lance», lesse velocemente Giovanni.

«Filtro curativo per le malattie polmonari, filtro curativo per le malattie delle ossa, filtro…»

Eccolo! «Filtro d’amore.»

Seguivano filtri e pozioni per accender l’invidia, per sedare rancori, per eliminare i calli dei piedi eccetera eccetera in una miscellanea di cui non si comprendeva l’ordine, ma c’era di tutto.

Ora sapeva cosa chiedere.

«Desidero la ricetta per ottenere tutti i filtri, le pozioni e quant’altro sia indicato in questo elenco, completa di quantità in peso e/o in volume a seconda che si tratti di solidi o liquidi.»

«Il tuo desiderio è la mia volontà», disse l’omone e... puff! , da una nuvoletta apparsa al suo fianco cadde sulla sabbia un librone dalla copertina rossa intarsiata d’oro.

Giovanni cadde in ginocchio e lo raccolse aprendolo sulla sabbia asciutta.

Le pagine in pergamena scricchiolavano sotto le sue dita mentre le sfogliava alla ricerca del filtro dei suoi sogni. Ogni pagina recava un elaborato disegno in oro zecchino e altri colori vivaci contenente l’indicazione della pozione magica in essa racchiusa.

Filtro d’amore. Eccolo!

Sotto, in bell’ordine, gli ingredienti.

Sangue di Drago ml 150

Denti di Strega g 20

Occhi di Serpente…

«Cosa?», gridò l’esterrefatto giovane alla figura che incombeva su di lui. «E come faccio a trovarli? Dove…»

«Questo non è un mio problema», rispose serafico il Jinn con un grande sorriso. «Suggerisco di passare al secondo desiderio, l’aria si sta scaldando.»

Era vero, i raggi del sole andavano schiarendo il cielo e una brezza tiepida accarezzava le spalle del giovane.

A dispetto della temperatura non ancora elevata, stava sudando copiosamente.

Se non poteva avere l’amore di Elena con un filtro, pensò freddamente, avrebbe potuto ottenerlo con la ricchezza. Aveva avuto modo di notare che la ragazza non era insensibile alle belle auto e ai resort di lusso.

Si riprese rapidamente dallo sgomento e si rialzò. Conoscendo più o meno il valore di listino…

«Desidero dieci tonnellate d’oro.»

«Il tuo desiderio è la mia volontà», disse l’omone e... puff! da una nuvoletta apparsa al suo fianco caddero sulla sabbia lingotti in grande quantità, accompagnati da un gioioso clangore metallico.

L’oro riluceva ai raggi del sole e Giovanni si buttò sul mucchio per contarli.

Erano pesanti, sicuramente cinque chili l’uno. Duemila lingotti. Circa cento milioni di euro!

Il cielo stava iniziando a prendere il caratteristico colore azzurro d’agosto. Come avrebbe fatto a trasportare tutto quell’oro? Beh, sicuramente gran parte dei lingotti… dopo tutto erano solo dieci metri. Era ricco! Ma il sole era uscito dal mare e illuminava la spiaggia. Presto, l’ultimo desiderio! Avrebbe fatto fruttare tutto quel denaro e sarebbe stato felice. Per sempre!

«Desidero diventare immortale!», urlò spavaldo al Jinn.

«Il tuo desiderio è la mia volontà», disse l’omone, «ora posso andare. Addio.» E scomparve.

Il torrente di adrenalina che si era riversato nelle sue vene in quei pochi minuti scomparve assieme al Genio e Giovanni ebbe freddo. Uno strano brivido lo percorse per intero. Il mucchio di lingotti era ai suoi piedi. Avrebbe dovuto trovare il modo di trasportarlo, di nasconderlo prima che arrivassero i soliti gitanti… Storse la mascella che gli doleva, mentre il gelo che aveva sentito nelle ossa si dissolse istantaneamente coperto da un calore ardente che gli straziò la pelle. Bruciava! Stava letteralmente bruciando! Il dolore era atroce. Si gettò in mare ma l’ardore che lo perseguitava non cessò e iniziò a fumare e a disgregarsi mentre quattro canini acuminati gli perforarono le gengive emergendo aguzzi come fusi.

Allora, solo allora, capì la beffa del Genio.

La sua immortalità sarebbe durata poco. Era diventato un vampiro!

Avvampò nel sole.


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