L'OROLOGIO CHE FERMAVA IL TEMPO

                       L’orologio che fermava il tempo

Stupito, alzai la mano dal baule in cui stavo frugando da alcuni minuti. «Il cipollone del nonno!», esclamai spalancando gli occhi.

Era un orologio da taschino di quelli che usavano nell’800. Cassa in acciaio, come il coperchio che proteggeva il quadrante, rotella esterna ben evidente per ricaricare la molla, vetro ingiallito e con un’incrinatura su una parte che però non nascondeva la sua particolarità: sul quadrante, anch’esso ingiallito, spiccava una sola lancetta.

Mi tremava la mano. Era quello!

Il famoso orologio che mio nonno mi aveva donato in punto di morte.

Me lo ricordavo ancora, pallido, la corta barba bianca a incorniciare il viso emaciato dalla malattia.

Mia madre era uscita un attimo dalla stanza da letto dove stava vegliando suo padre, quando il vecchio che fino ad allora aveva le palpebre chiuse, aprì gli occhi, mi vide e sollevando un poco la mano esangue che poggiava sul lenzuolo, mi fece cenno di avvicinarmi.

Avevo quindici anni e pur sapendo che mio nonno stava per morire, la cosa mi fece una certa impressione. Erano giorni che mio nonno non apriva più gli occhi, in uno stato di semicoscienza che preludeva la fine annunciata dai medici.

«Enzo, vieni, non aver paura», disse con un filo di voce alzando un poco la testa dal cuscino.

Mi avvicinai.

«Ti devo… ti devo dire una cosa. Una cosa che dovevo dire a tuo padre, ma ci ha lasciato troppo presto e io ho aspettato troppo.»

Un colpo di tosse lo ributtò indietro, sul cuscino.

Chiuse gli occhi, li riaprì e continuò.

«Ho aspettato che tu fossi grande, per sapere, per capire…»

«Che devo capire nonno?»

«Nel mio cassetto, sì, mi pare che sia lì, c’è un orologio. Un orologio particolare, con una lancetta sola. Prendilo.»

Mi alzai dalla sedia che avevo avvicinato al letto e aprii il cassetto del comodino di palissandro. Dentro c’erano dei fogli bianchi e una penna.

«Qui non c’è niente, nonno.»

«Eppure ci deve essere. L’ho messo lì l’ultima volta che… o forse nello stipo in salotto», accennò. «Non ricordo più bene, la memoria se ne sta andando come tutto il resto. Non importa. Lo troverai. Hai ancora molto tempo.

Allora stai attento. Quando lo troverai, sappi che è il mio regalo per te, per la tua vita. Lo comprai per quattro soldi da un antiquario che non conosceva il suo potere. Il suo grande potere.»

«Un potere?»

«Sì, ma solo per te, da quando ho inciso il tuo nome sulla cassa», accennò il vecchio ristendendosi sui cuscini. L’aver parlato tanto a lungo l’aveva sfinito. Il pallore sulla fronte pareva essersi mutato da giallastro a bianco cadavere. Goccioline di sudore gli imperlavano il cranio e le mani erano percorse da un tremore che non gli avevo mai visto.

Stava male.

«Mamma!», chiamai con un filo di voce, poi più forte. «Mamma! Vieni!»

Il nonno riaprì gli occhi e come se non avesse interrotto il discorso, riprese.

«L’orologio», disse con un rantolo, «ferma il tempo!»

«Ogni ora vale un anno per tutti gli altri, ma non per te e poi devi stare attento alla successione, la successione…»

Feci a tempo a capire, intuire, queste parole biascicate con l’ultimo fiato che ancora aveva in corpo. Poi rovesciò gli occhi all’indietro e con un ultimo tremito degli arti, spirò.

In quel momento mia madre che stava tornando dal giardinetto dove era andata a raccogliere la salvia entrò in camera.

«Che c’è? Mi hai chiamato?», poi si accorse della rigidità del nonno e si mise una mano sulla bocca sedendosi di schianto sulla sedia.

I funerali si svolsero in un’atmosfera strana, rarefatta.

A seguire la bara in chiesa e al cimitero c’eravamo solo io, mia madre e altre due signore. Non avevamo altri parenti e gli amici di mio nonno erano scomparsi prima di lui. Dalla morte di mio padre, la mamma conduceva una vita molto riservata e le uniche amiche che aveva si sedettero assieme a noi in quella chiesa che mi parve assurdamente fredda. Occupavamo una sola panca. Mentre il prete ricordava la figura del nonno, ripensavo a quelle sue strane parole.

L’orologio che fermava il tempo.

Cosa aveva voluto dire mio nonno e dov’era l’orologio?

Tornati a casa, nei giorni seguenti, cercai invano in tutti i cassetti, fino a chiedere a mia madre se avesse visto da qualche parte l’orologio del nonno.

«Che c’è Enzo? Mi hai chiamato? Quale orologio? Tuo nonno non aveva orologi. Non li ha mai voluti.», mi rispose tra le lacrime. Piangeva sempre. A intervalli irregolari, ma piangeva. Aveva un fazzoletto di stoffa a portata di mano che estraeva veloce da una tasca della gonna e poi si voltava per non farmi vedere scorrere le lacrime. Poi, passata la crisi, mi diceva che adesso ero io l’uomo di casa e che avevo la responsabilità di studiare e di comportarmi bene, che eravamo soli, ma che lui ci avrebbe aiutati da lassù assieme a mio padre.

Io chinavo la testa e dicevo «Sì mamma», e cercavo veramente di non darle altri problemi o altri affanni.

Poi, con il tempo, la ricerca dell’orologio del nonno finì in un cassetto chiuso nella mia mente . Un cassettino da cui alle volte riaffiorava la curiosità di conoscere il significato delle sue ultime parole. Poi anche quella scemò fino a scomparire.

La vita era andata avanti. Avevo terminato le scuole, ed ero entrato in uno studio notarile di ottima fama. Non mi ero sposato. Qualche avventura, ma niente di serio e sullo scorcio del 1900, mia madre disapprovava che ancora non avessi messo su famiglia come tutti i miei coetanei. Quando si ammalò le rimasi vicino nella casa di famiglia ma alla sua morte mi trasferii in città. La vecchia casa restò sola, in cima alla collina, con il prato che si inselvatichiva ogni anno di più e il colore delle imposte che crepava sotto il sole. Non avevo più voluto saperne. Troppi lutti, troppo dolore. Mio padre, mio nonno, mia madre… Per me significava un luogo di morte e per alcuni anni non salii più il sentiero che dalla base della collina portava al cancello di ingresso. Poi ebbi un’offerta. Un’offerta vantaggiosa per quella vecchia casa e decisi di disfarmene.

Ecco perché quel giorno d’estate, tre anni dopo la morte di mia madre, a bordo del calesse che andava impolverandosi su per la salita, ero arrivato di nuovo davanti alla casa della mia non felice adolescenza. Volevo vedere se ci fosse qualche vecchio mobile o suppellettile da salvare o se fosse meglio vendere tutto nello stato in cui si trovava.

Dopo aver aperto le imposte e fatto entrare un po' di sole, avevo iniziato a dare un’occhiata in giro partendo dal piano terra. Ogni cosa, ogni mobile, mi appariva ricoperto di un velo di polvere e di tristezza, come se la casa intera ne fosse impregnata. Decisi subito che la mia “ispezione” sarebbe stata breve.

Per non lasciare però niente di intentato, decisi di salire anche in soffitta, il tetto basso sopra di me e le finestrelle piene di ragnatele, con la polvere che si sollevava ad ogni passo.

La mattina passò così spostando vecchie casse, eliminando mucchi di stracci e di vecchi giornali. Quando vidi un topo correre sopra una trave, decisi che era il momento di lasciar perdere. Rimaneva solo un vecchio baule da ispezionare. Magari qualche foto antica, un ricordo di famiglia…

E ora avevo ritrovato l’orologio. Quell’orologio che aveva impegnato per giorni e giorni le mie ricerche di quindicenne. Con in tasca il peso del cipollone, tornai in città.

Entrai in salotto con l’idea di esaminare meglio quello strano oggetto e mi munii di uno straccio e di un liquido per oliare.

Nell’interno del coperchio una scritta incisa : “La divina serie il tempo blocca, non l’usare se grave mal nol tocca”. Sul retro della cassa in acciaio, il mio nome come ricordavo avesse detto il nonno.

Seduto davanti alla finestra aperta che dava sul giardino, tolsi la polvere dal quadrante ancora protetto dal vetro spesso e misi un paio di gocce d’olio sulla rotella che si trovava sulla destra.

La lancetta che avrebbe dovuto misurare le ore era ferma sulle 12. Con delicatezza girai la rotella in senso orario per avviare la carica.

Non avvertii nessuno scatto da parte di molle o meccanismi interni ma la lancetta si spostò di netto sulle ore 13. Non accadde niente per qualche minuto, con me che stavo a fissare quell’oggetto venuto chissà da dove e dal quale mi aspettavo chissà che. Poi, d’improvviso avvertii un repentino mutare della luce intorno a me e sollevai la testa stupito.

Il paesaggio che si vedeva dalla finestra era uguale a prima, o meglio, sembrava uguale, ma c’erano delle differenze. Il cespuglio di rose rosse che non ricordavo di aver piantato, l’erba tagliata bassa… Mancava il noce!

Il grande albero messo a dimora da mio padre non c’era più. Le sue grandi fronde occupavano da sempre lo sguardo a destra impedendo la vista della collina che invece ora era lì, davanti a me, con i suoi dolci pendii e la stradina sterrata che saliva fino in cima.

Rimasi seduto e girai la testa. Anche la stanza aveva subito qualche mutamento. La pittura sulle pareti era dello stesso colore, ma non era più scrostata, pareva ridipinta da poco. I mobili, le suppellettili, tutto era al suo posto o spostato di poco. Ma chi…?

Mi alzai lentamente. Cosa stava succedendo. Cos’era successo?

Scesi a pianterreno. Sul tavolo il giornale ancora non aperto invitava a dare un’occhiata ai fatti del giorno.

La data! 10 giugno 1904!

C’era un errore, era il 1903 non poteva…

Poi la verità mi si palesò davanti.

L’orologio!

Avanzando la lancetta di un’ora, ero in realtà passato all’anno successivo. Di scatto, senza ricordi, senza che me ne accorgessi, era passato un anno della mia vita.

Uscii fuori in tempo per vedere un paio di persone ferme vicino allo steccato che delimitava la proprietà. Evidentemente, in quell’anno di cui non ricordavo nulla, avevo venduto la casa. Feci il giro sul retro senza farmi vedere e tornai allo studio frastornato. L’orologio nella mia tasca era ancora lì, fisso sulle 13.

A che poteva servire un marchingegno che cancellava i ricordi trasportandoti praticamente nel futuro?

Provai a ruotare la rotella all’indietro. Niente da fare. Avevo perso un anno. Un anno della mia vita! Rimisi con rabbia il cipollone nel cassetto della scrivania.

Accidenti a mio nonno! Che razza di regalo!

Lo avevo cercato per tanto tempo e ora…

Nei giorni successivi cercai di ricostruire cosa fosse successo nei dodici mesi passati. Niente di eccezionale, scoprii. Il mondo aveva girato come al solito, il mio conto in banca era aumentato considerevolmente grazie agli investimenti fatti con il patrimonio di mio padre, e potevo contare su un discreto reddito mensile. Mi ero licenziato dallo studio e vivevo di rendita. Mi ero dato per diletto, allo studio della matematica, branca del sapere che mi aveva da sempre affascinato. Studiavo le serie, i teoremi, leggevo affascinato l’evoluzione del pensiero umano. A parte questo, avevo vissuto la mia normale vita di sempre. Non ricordavo nulla. Era come se quell’anno fosse stato vissuto da un’altra persona. Con un brivido mi resi conto però delle potenzialità positive di quello strano oggetto. Se mi fossi ammalato, rotto un braccio, trovato in una situazione dolorosa che si sarebbe risolta nel tempo, avrei potuto mandare avanti la lancetta dell’orologio per ritrovarmi a qualche anno di distanza senza ricordare patimenti, sofferenze o altro. Certo, non avrei ricordato anche le cose belle che magari mi sarebbero successe, ma di sicuro avrei evitato le parti peggiori.

Chissà se mio nonno l’aveva mai usato.

“…se grave mal nol tocca…”

Al momento non mi sarebbe servito, ma nella vita non si sa mai…

E infatti il destino mi mise subito alla prova.

Due mesi dopo la mia scoperta, tornavo dalla città dove avevo passato la mattina per delle compere. L’auto nuova, una Fiat 60Hp appena acquistata con grande invidia degli abitanti del posto, correva veloce sulla strada bianca, sollevando una grande nuvola di polvere che non mi faceva certo passare inosservato. Le persone si scansavano al mio arrivo, chi spalancando gli occhi, chi facendosi il segno della croce, chi additandomi come se fossi il diavolo. Spinsi il motore. Arrivato quasi agli 80 Km/h, sterzai su una curva piena di buche e persi il controllo del mezzo. L’auto uscì di strada scendendo a sobbalzi lungo un ripido pendio erboso e nonostante i miei sforzi centrò in pieno un albero al limitare del campo sottostante, vicino ad una villetta che feci appena a tempo a cogliere con lo sguardo. Sbatteì la testa contro il volante e persi i sensi.

Un forte odore di alcol e di fenolo mi accolse qualche tempo dopo assieme a una luce diffusa e una voce che non conoscevo che stava dicendo: «Ecco, si sta svegliando.»

Aprii a fatica un occhio rendendomi conto che l’altro era bendato e con qualche sforzo misi a fuoco l’immagine che avevo davanti.

Un viso femminile. Occhi verdi, capelli d’oro raccolti sulla nuca, un nasino e una bocca che parevano usciti da un dipinto del Botticelli.

Tentai di articolare qualche parola senza riuscirci.

L’angelo che mi sovrastava mi sollevò un poco la testa porgendomi un bicchiere. «Non si sforzi di parlare. Beva questo, il dottore ha detto che le farà bene e poi riposi. Ci sarà tempo per parlare.»

Ubbidii come un bambino e riuscii a bere un sorso di quella bevanda amara. Poi mi lasciai andare ancora sul cuscino e chiusi nuovamente gli occhi.

Nei giorni successivi, ebbi modo di riprendermi completamente grazie alle assidue cure di Marta che mi raccontò come avesse sentito lo schianto e fosse accorsa con suo padre per estrarmi dai rottami dell’auto. Il dottore, subito chiamato, mi aveva diagnosticato un semplice trauma cranico e una ferita lacero-contusa al sopracciglio sinistro. Un miracolo. Sarebbe stato meglio non trasportarmi all’Ospedale che distava una ventina di chilometri per evitare ulteriori sobbalzi che certo non mi avrebbero fatto bene. Marta accolse subito l’invito a prendersi cura di me e il padre fu d’accordo, lieto che la figlia, almeno per un po', trovasse un modo per evitare la noia della vita in campagna. Non aveva considerato che Cupido aveva scagliato già le sue frecce. Completamente ristabilitomi, due mesi dopo chiesi la mano di sua figlia. Il padre stabilì che il tempo di fidanzamento non potesse essere inferiore a un anno.

Io mi sentivo il sangue ribollire nelle vene tutte le volte che Marta mi sfiorava e fu allora che usai per la seconda volta l’orologio.

In una mattina d’agosto, mentre stavamo passeggiando intorno a casa sotto l’occhio vigile del genitore, estrassi di tasca il cipollone e fermatomi su una panchina ruotai la rotella sulle 14. Avevo 25 anni.

Dopo il solito tempo di attesa, il veloce cambiare della luminosità mi avvertì che era passato un anno.

Marta mi sedeva accanto più radiosa che mai, il corpetto del suo vestito di pizzo bianco a poca distanza dal mio viso e mentre mi stavo riprendendo, mi parlava dei preparativi per il matrimonio che si sarebbero svolto l’indomani.

«Verrà anche lo zio Gustavo, sai? Mi ha scritto da Roma che non si sarebbe perso il matrimonio neppure per tutto l’oro del mondo! Abbiamo aspettato che tornasse dalle Americhe proprio per questo e domani sarà qui.»

La sua risata fresca e argentina mi rincuorò. Del resto cosa avevo perso? Un anno di inviti a pranzo, frequentazioni in salotto in compagnia del padre, fugaci strette di mano, forse qualche bacio rubato.

Tra una settimana saremmo stati in ben altra intimità e la cosa mi faceva battere il cuore. Ormai potevamo baciarci senza l’ottusa presenza del padre e iniziai a prendermi delle libertà alle quali lei rispose ritraendosi pudicamente senza accennare ad andar via.

Il matrimonio si svolse in una bella giornata di sole, il pranzo fu di tutto rispetto e la sera si rise e si ballò nella piazza del villaggio.

Poi ci ritirammo nella nuova casa che ci aspettava da tempo.

Fu una notte di incontri e di sguardi, di amplessi scoordinati e di conoscenza reciproca, fino a quando non prendemmo un ritmo lento e sensuale che sul far del mattino, ci ritrovò sconvolti ma felici tra le lenzuola sfatte.

Mi addormentai tra le sue braccia, ma al risveglio lei non c’era. Mi sentivo strano, stanco. Comprensibile, mi dissi, dopo una notte come quella…

Sentivo delle voci da basso. Pensai subito agli amici venuti per le solite prese in giro accolti inopinatamente da mia moglie.

Che ore erano?

Mi alzai per andare in bagno, la testa mi girava. Avevo dei dolori alle ginocchia e mi sentivo debole come un pulcino. Mi sciacquai il viso e lo specchio mi trasmise l’immagine di una faccia che non conoscevo. I capelli! Che fine avevano fatto i capelli? Un’ampia zona della fronte che andava fino a metà cranio, luccicava sotto le forti luci di un bagno rivestito di marmo. Il resto dei capelli, pochi e bianchi, incorniciavano un viso emaciato, vecchio.

Ero un vecchio! Mi lavai sommariamente, senza neanche farmi la barba, ansioso di capire, di sapere.

Tornai in camera. Indossai dei vestiti ben stirati che trovai vicino al letto. Un completo da signorotto di campagna. Camicia bianca, giacca e pantaloni di velluto verde.

Scesi le scale appoggiandomi alla balaustra. C’era un odore di cucina che permeava l’aria assieme alle voci che si facevano via via più forti.

Entrai in salotto e mi fermai a riprendere fiato.

«Enzo, amore. Finalmente ti sei svegliato. Stavo quasi in pensiero.»

A parlare era stata una delle due signore intente a conversare prima della mia entrata.

Una vecchietta dal sorriso aperto, gli occhi verdi ancora curiosi.

Gli occhi verdi…

«Marta? Cosa è successo?»

«Ma niente caro, cosa vuoi che sia successo? Ieri sera hai mangiato troppo e stamani non ne volevi sapere di svegliarti. Ti presento Maria, la figlia dello zio Gustavo, ricordi? Ti avevo detto che avrebbe passato qualche giorno da noi ed eccola qua. Non è un fiore?»

La ragazza fece cenno di alzarsi dal divano, ma con la mano tremante la invitai a sedersi.

La figlia di Gustavo?

Poi vidi l’orologio. Stava sul tavolino proprio in mezzo a loro.

«L’orologio», dissi barcollando verso il tavolino.

«Ah, quel vecchio cipollone con una lancetta sola», disse Marta sollevandolo per porgermelo.

«Ieri sera ho rimesso l’ora, sperando che almeno quella fosse giusta», continuò con quella sua risata che conoscevo.

«A che ora l’hai messo?», chiesi con un brivido.

«Alle 11, ma si è fermato lo stesso. Vedi, segna ancora la stessa ora.»

Le 11! La testa mi girava. Poi improvvisamente un ricordo dei miei studi. Vidi come in sogno il quadrante dell’orologio con sovrapposte non le ore ma una serie di numeri che mi aveva affascinato e che mi ricordavo ancora. La successione. Quando il nonno aveva parlato di successione avevo pensato ai termini del testamento, alle terre, agli averi. Non era quella la successione! Era la serie di Fibonacci in cui ogni numero è la somma dei due numeri precedenti. Quando l’avevo trovato la lancetta dell’orologio era ferma sulle 12, lo zero. Poi la serie continuava: 0,1,1,2,3,5,8,13,21,34,55… Ogni numero rappresentava il salto di anni che si poteva ottenere!

Le 11 rappresentavano il 55. Cinquantacinque anni! Più i venticinque che avevo al momento dell’incontro con Marta… facevano 80.

Avevo passato tutta la vita con quella splendida creatura e non mi ricordavo niente. Cinquantacinque anni scomparsi in un soffio, senza alcun ricordo. Avevamo avuto figli? Eravamo stati felici? Cosa era successo…

Un dolore lancinante mi trafigge il petto e mi accascio sul pavimento. Sento solo Marta urlare il mio nome. Poi scende il buio.