RISVEGLIO

Risveglio


Non è lontano. Non è lontano, ti eri detto mentalmente inerpicandoti per il sentiero in salita. Il fioco pallore della Luna nascente, illuminava appena il cammino. Nonostante il freddo intenso sudavi. Le gambe sembravano pietre. Pesanti come i macigni che ingombravano il letto del torrente asciutto che avevi scelto come via più breve per arrivare dal nonno. Casa sua distava poco più di due chilometri dalla villetta isolata sui monti dell’appennino modenese che fino a poco tempo prima dividevi con tuo padre. Il paese più vicino , Fiumalbo, un borgo di poco più di mille anime, si trovava a una mezz’ora di auto e fino alla sua morte, lo avevi regolarmente accompagnato a fare la spesa per poi raggiungere l’Istituto tecnico Economico di Pievepelago con l’autobus di linea. Al ritorno dal suo lavoro come guardia forestale, la sera percorrevate la strada di casa insieme o vi fermavate a cena nel piccolo paese dove tu hai gli amici e “il guardia” era conosciuto da tutti. Spesso, dopo cena, lui scendeva nel seminterrato dove aveva allestito un piccolo laboratorio che utilizzava per confezionare distillati che distribuiva gratuitamente agli amici in caso di raffreddori o digestioni difficili. Era il suo hobby. La mancanza di una madre, uscita dalla tua vita per un incidente in montagna quando eri bambino, non era stata tanto traumatica quanto l’ improvvisa malattia di tuo padre. A distanza di mesi, ricordavi fin troppo bene il senso di sgomento provato alle sue parole al ritorno da una visita medica a Modena. Visite di routine che tuo padre faceva una volta all’anno. Un check up, diceva, tanto per stare tranquilli. Era partito in auto, allegro come sempre, mentre rimanevi in paese per una partita di calcetto con gli amici. Tra poco avresti compiuto diciotto anni e la vita ti si apriva davanti con i suoi infiniti petali pieni di sogni. Gli esami di maturità sarebbero arrivati con l’estate e si parlava di viaggi, vacanze, avventure. Ma non quella sera. Quella sera, lo sguardo serio e il passo lento con cui si era avvicinato alla casa, ti avevano fatto aggrottare le folte sopracciglia scure. Era un uomo imponente, Guido Valenti, e avevi preso da lui, una figura che ti sovrastava ancora di pochi centimetri e dal quale avevi ereditato una corporatura massiccia e due occhi grigio verdi che, lo sapevi, destavano più di uno sguardo interessato da parte delle compagne di classe. Bianca, la tua attuale ragazza, ne è affascinata e i suoi baci iniziano sempre da lì, dai tuoi occhi . Avevate già pensato ad una prima vacanza insieme, in un campeggio sulla costa tirrenica. Strano a dirsi ma Bianca non aveva mai visto il mare. Ma quella sera, al ritorno di tuo padre, era cambiato tutto. I tuoi piani, la tua vita. Intorno, l’imbrunire di novembre rendeva magico il bosco che iniziava dove la radura che accoglieva la casa s’inaspriva in boscaglia e in rovai sempre più fitti, quasi inestricabili. Gli ultimi raggi di sole si incuneavano tra i rami creando lunghe ombre che arrivavano fino ai gradini del portico. Le foglie non ancora cadute delle querce si tingevano d’oro magnificendo quell’ora che da piccolo ti faceva paura. Allora le ombre che correvano sul prato ti sembravano braccia scheletriche pronte a ghermirti e ti rifugiavi in casa, vicino al fuoco, aspettando la rassicurante figura paterna che dopo aver spento l’ultima sigaretta entrava per preparare la cena. «Bruno, ascolta», aveva detto lui sedendosi sulla panca della veranda. Il tono della voce, la luce stanca che non brillava come sempre negli occhi, ti avevano messo in allarme, ma non ti saresti mai aspettato le parole che uscirono dalla sua bocca. «Le cose cambieranno. Presto.» Non avevi replicato nulla. Le grandi mani che si torcevano sotto il tavolo, tradivano una preoccupazione che quella quercia d’uomo non riusciva a nascondere. «Sono stato all’Ospedale. Quei dolori che avevo alla testa… non erano solo quelli, i dolori. Non te ne avevo parlato ma da un po’ di tempo non vedo più bene, vedo tutto come appannato. Quelle visite che avevo fatto il mese scorso, ti ricordi? I raggi, la Tac. Ho parlato con il primario di oncologia… ho il cancro.» «Babbo…» «No, aspetta, fammi finire… Non è un semplice tumore. Un neuroblastoma. Ho le metastasi. Dappertutto. Finirà tutto molto presto.» «Ma le cure, la radioterapia…», avevi balbettato. «Non c’è tempo, non c’è più tempo. Mi sono messo già in contatto con il dottor Seri, giù in paese, per le cure palliative. Penserà a tutto lui. Non voglio finire in ospedale. Starò con te. Staremo assieme.» Si era alzato e ti aveva abbracciato forte con gli occhi velati di pianto. Eri rimasto impietrito. Rigido al suo abbraccio. Incredulo. Nei tre mesi successivi avevi avuto modo di vedere quanto rapido fosse il male che stava divorando l’uomo che ritenevi indistruttibile, la quercia di casa, il tuo infinito appoggio. Si era chiuso nel seminterrato a preparare pozioni e tisane per una settimana, poi dopo un’ultima visita al nonno con uno zaino carico di chissà cosa, si era chiuso in un mutismo che faceva paura. Prima da solo, poi con l’aiuto di una infermiera che passava da casa tutti i giorni, avevi assistito impietrito al lento distruggersi di quel monolite che era stato tuo padre. La morfina e le altre medicine lo tenevano in uno stato di vita sospesa, quasi senza dolore, quasi senza coscienza. Fino all’ultima settimana, quando nella sua camera trasformata in letto d’ospedale, in uno dei sempre più rari momenti di lucidità, ti aveva chiamato. L’odore di malattia e di chiuso a cui non riuscivi ad abituarti, ti prese alla gola. «Bruno, Bruno…» «Sono qui babbo», avevi sussurrato prendendogli le mani. Ti batteva forte il cuore mentre lui continuava a parlare. «Bruno, lo so che sei un ragazzo forte e non avrei voluto lasciarti solo per nulla al mondo. Non ora. Non ora che stai diventando grande. Ci sono cose che non ti ho detto della nostra famiglia e che devi sapere. Adesso, prima che sia troppo tardi. Il tuo compleanno è tra poco, vero?» «Sì babbo, tra una settimana.» «Non ho nulla da regalarti se non un avvertimento che forse avrei dovuto farti prima, ma non avrei mai pensato che... ». Un colpo di tosse lo interruppe. «Tuo nonno Fausto ha… ha una malattia.Una malattia rara. » La notizia della malattia, il tono accorato delle parole, la sua stretta, ti avevano lasciato senza parole. L’unico pensiero che ti rimbalzava in testa era che saresti rimasto solo, completamente solo. Tuo padre tirò il fiato. «Devi andare da lui. Subito. Prima del tuo compleanno. Lui ti spiegherà. Io non ne ho per molto e parlo a fatica. Va’ da lui. Prima del novilunio e del tuo compleanno. Me lo prometti?» «Va bene. Te lo prometto. È già Luna nuova. Ci andrò. Dopo. Ora è il momento di stare con te», replicasti accomodandogli il guanciale e sfiorandolo con un bacio. Tuo padre scosse la testa sul cuscino. «No, ci devi andare ora! Ora o sarà troppo tardi!», urlò cercando di alzarsi dal letto. Rimanesti sorpreso da quella reazione inattesa. «Devi portargli gli appunti che sono nel seminterrato. Lì c’è scritto… » Poi si abbattè nel letto, spossato. Richiamata dal trambusto l’infermiera accorse pronta con una piccola siringa. «Vada, vada», ti disse con uno sguardo di compatimento. «È da stamani che straparla. Ora deve riposare». Ti allontanasti dal capezzale con il solito senso di rimorso che ti prendeva quando uscivi da quella stanza. Fuori folate di vento gelido ti avvolsero assieme alla nebbia di Febbraio e scendesti rapidamente verso il villaggio. L’unico bar del paese ti accolse nel suo abbraccio surriscaldato. Bianca ti aspettava al solito posto, bella e desiderabile come sempre. Tra un bacio e l’altro, le raccontasti le strane parole di tuo padre. «Hai un nonno? Non me ne avevi mai parlato.» «Penso di averlo visto una volta sola, quando ho avuto la pertosse e mamma era morta da poco. Il nonno venne ad abitare da noi per qualche giorno, poi se ne andò e non l’ho più rivisto. Mi ricordo solo i suoi occhi, verdi come i miei, e i capelli bianchi.» «Ma abita qui, in paese voglio dire?» «No, sta in cima alla collina, una specie di eremita. Pensa che va ancora a caccia nei boschi. Quando ci va, mio padre prende il sentiero dietro casa nostra e da quanto ne so lo segue fino in cima al bosco. Non sono mai andato con lui. » «Ma ci vive da solo?» «Mia nonna è morta tanti anni fa. Non ho mai conosciuto neanche lei. Mio padre va a fargli visita una volta al mese. Gli porta provviste, qualche medicinale… ma ci va, ci andava… sempre da solo.» Bianca si staccò dalle sue braccia e lo guardò. «E ora, tuo padre vuole che tu vada da lui.» «Esatto. Ci andrò quando sarà tutto finito. Ora ho voglia di te.» Lei sorrise. Era la figlia del padrone del bar e c’era una stanzetta al piano di sopra dove riprendeste quei giochi d’amore che ti facevano rimanere ancorato alla realtà dei vivi. Il funerale c’era stato qualche giorno dopo, con la partecipazione di quasi tutto il paese. La sorte volle che coincidesse con il tuo diciottesimo compleanno. Guido era conosciuto e rispettato da tutti e la commozione dentro e fuori la chiesa era stata grande. Le strette di mano, gli abbracci, le parole di conforto, ti avevano lasciato calmo, quasi freddo, come se la cosa riguardasse qualcun altro. Non c’erano parenti, tranne il famoso nonno che non si era fatto vedere. Bianca accanto a te tutto il giorno assieme ai suoi, poi all’ora di cena, l’avevi salutata e avevi rifiutato con un mezzo sorriso tutti gli inviti. Ormai avevi diciotto anni, potevi e dovevi badare a te stesso. Bianca aveva promesso di venirti a trovare dopo cena e così fece presentandosi davanti alla porta rabbrividendo in un vestitino leggero. La incorniciava la luce della Luna piena che stava facendo capolino dagli alberi. Era bellissima. Appena entrò, la stringesti al petto e l’accompagnasti in camera da letto. Non c’era niente da dire, muti, vi spogliaste e faceste l’amore. Più volte. Poi spossato ti mettesti a dormire. Dormisti un sonno agitato, pieno di tensione e di urla con la sensazione di non poter fuggire da un essere malvagio che ti inseguiva. Ti svegliasti di soprassalto coperto di sudore a un rumore come di passi all’esterno della casa. Al buio, un odore dolciastro permeava la camera. Notasti anche un senso di bagnato tra le lenzuola che in quell’epoca dell’anno, con la stufa accesa, avrebbero dovuto essere assolutamente asciutte. Ruotando nel letto, Bianca non era accanto a te. La chiamasti, piano. Non rispose. Il suono di passi strani, pesanti continuava. La finestra era chiusa e accendesti la piccola abat jour sul comodino. L’orrore ti investì in pieno travolgendoti come un colpo di fucile in faccia. Non era sudore quella strana sensazione di bagnato da cui ti sentivi avvolto. Giacevi in un lago di sangue. Bianca per terra, straziata. Nuda, la gola e il petto squarciati, le viscere sparse sul pavimento, gli occhi spalancati dal terrore. Ti girava la testa. Un conato di vomito ti impedì di urlare. Non emettesti alcun suono, continuando a fissare la scena incredulo. L’odore dolciastro del sangue ti nauseava tanto quanto la vista di quello scempio. Poi sentisti la voce. «Bruno, Bruno…» Veniva da fuori. «Bruno esci, ti devo spiegare, mi devi seguire, svelto…» Fu allora che notasti la porta di servizio aperta. Quella che dava verso il bosco. Annaspando uscisti allontanandoti da quella scena tremenda. Il nonno. Era la sua voce. Fuori la pallida luce del mattino illuminava la radura e le piante di una luce fredda, cristallina. Allora ricordasti le parole di tuo padre. La malattia… Lo intravedesti. Una figura scura che stava salendo attraverso gli alberi a passo svelto, quasi saltando tra una pietra e l’altra. Correva curvo sotto i rami, continuando a chiamarti. Maledetto. Maledetto! Non pensasti altro coprendoti alla bell’e meglio con il piumino pesante e un paio di pantaloni. Ti infilasti gli stivali da neve e prendesti il fucile da caccia che tenevi in casa. Maledetto assassino! Altro che malattia. Li aveva spiati, aveva aspettato che si addormentassero e poi… Ti fermasti a vomitare nel patio senza avvertire stranamente freddo in quel mattino di Febbraio. Poi iniziasti a correre. A metà della collina, ansante ti guardasti intorno. Il sentiero ripido, incorniciato dal folto degli alberi, si perdeva nell’incerta luce della prima curva. La foresta di cerri e lecci, fitta come un muro scuro ti infondeva un misto di emozioni in bilico tra sicurezza e paura. Da una parte sembrava tanto impenetrabile da non permettere l’avvicinamento di animali o persone senza che non se ne potesse avvertirne la presenza. Dall’altra non consentiva di inoltrare lo sguardo che per pochi metri, alienandoti la certezza di essere solo. Ed era questo il punto. Non ti sentivi solo. I peli ritti sul collo, il sudore che scorreva lungo la schiena, dato solo in parte dalla fatica, le orecchie tese ad ascoltare quello che solo la mente poteva percepire, consigliavano diversamente. La luce diffusa attraverso nuvole compatte illuminava il sentiero. Riprendesti il cammino calcando con forza gli stivali nella neve caduta la sera prima che ora, ghiacciata, forniva l’unico rumore avvertibile.Ti fermasti di nuovo, le orecchie tese. Percepivi distintamente l’odore del fumo della casa del nonno di cui intravedevi le mura nella foschia. Ma c’erano anche altri odori. Un cervo, poco lontano, e l’odore dei lupi, più lontano ancora, nei boschi del crinale. L’ arma stretta tra le mani, avanzasti verso il capanno accanto alla casa. Quel miserabile era lì, lo intravedevi attraverso la finestra sporca illuminata da una luce giallastra. Spalancasti la porta con un calcio puntando il fucile. La stanza era lunga e stretta. Spoglia. Pareti di tronchi, come il soffitto che spariva nell’ombra, il pavimento male illuminato da una lampadina. Il sangue ti ribolliva dentro e una nebbia rossastra ti impediva una visione chiara. Le finestre chiuse , ai lati opposti della stanza, erano munite di doppie inferriate. Dal fondo del capanno che non vedevi, arrivò la voce che avevi già sentito: «Bruno, vieni avanti… Bruno…» Sparasti alla cieca con la doppietta che ti rimbalzò tra le mani e ti gettasti avanti ma inciampasti e cadesti sul pavimento di terra battuta urtando la testa. Una grata di acciaio scattò dall’alto dietro di te e un’altra davanti. Eri prigioniero in una gabbia! Prima di svenire vedesti tuo nonno, un’ombra massiccia, uscire da una porticina sul retro, poi tutto fu buio. Il freddo della sera ti trovò nudo e raggomitolato contro una parete. Ti svegliasti prendendo coscienza di te poco a poco. Ti sentivi come se ti fosse passato sopra un tir. Sollevato sulle ginocchia, appoggiato al muro, intuisti qualcuno dietro la grata di acciaio. Lo riconoscesti. La criniera di capelli bianchi, gli stessi tuoi occhi verde ghiaccio, la figura imponente non incurvata per l’età. L’uomo si avvicinò, calmo. «Ciao Bruno, sono tuo nonno Fausto. Prima che ti scagli contro questa grata, sappi che non puoi sfondarla. Riposati e ascolta. Non sono io il responsabile della morte della tua fidanzata. E neanche tu… «Tuo padre che sapeva della mia… malattia, aveva trovato un rimedio. Ecco perché me lo portava una volta al mese. Prima di questo ero costretto a chiudermi qua dentro e buttare la chiave oltre la grata. Poi toccava a lui riaprire. L’ultima volta l’ho visto mesi fa. Doveva aver lavorato molto, me ne ha portato una scorta che si è esaurita giusto ieri. Nel frattempo saresti dovuto venire tu, ma non ti ho visto e allora ho capito che non avrei rivisto neanche lui. Era preoccupato che anche tu avessi la mia stessa alterazione cromosomica e infatti… Oh, non ti preoccupare, la prima volta è estremamente doloroso, ma poi è come stirarsi in un corpo nuovo. » Tu lo guardasti come si guarda un pazzo assassino. Dovevi assolutamente trovare il modo di uscire di lì, avvisare la polizia. Assecondarlo, ecco dovevi assecondarlo, guadagnare la sua fiducia. «Adesso mi fai uscire di qui?», dicesti con il tono di voce più benevolo che ti riuscì di trovare. «Non posso Bruno», rispose lui aprendo una finestra e accoccolandosi vicino alla grata. Una lama di luce penetrò nella stanza illuminandola in parte. La Luna piena stava sorgendo oltre la cima degli alberi. «Come ti dicevo l’antidoto è finito e io non so come procurarmelo. La Luna piena dura due giorni e stanotte, stanotte dovrai rimanere qui. Per il tuo bene. Dovrai capire come gestire quello che la natura ci ha riservato.» «Ma di che parli?», gli gridasti cercando di alzarti in piedi. Un dolore sordo iniziò a propagarsi per tutte le ossa come un maglio infuocato mentre sentivi gli arti sottoposti a trazioni e contorcimenti che non avresti supposto possibili. Le tue intenzioni di rabbonire il pazzo erano scomparse tutte in una volta. «Hai ucciso Bianca, mi hai rinchiuso qua dentro…», riuscisti ancora a dire prima che la deformazione che ti stava trasformando il cranio ti impedisse di parlare. «Te l’ho già detto. Non l’ho uccisa io… Sei stato tu. La prima volta la trasformazione dura poche ore. Poi dura tutta la notte del plenilunio. E la notte successiva. Vedi Bruno», disse lentamente, «l’hai sbranata tu, Bianca. Siamo licantropi, è bene che tu te ne renda conto.» «Siamo cosa!?», gridasti nella tua testa scuotendo la griglia di acciaio che saparava da quel mostro. Quello che uscì dalla tua bocca fu solo un ringhio feroce. «Stanotte resterai qui e ti renderai conto della tua natura. Adesso vado a “ripulire” casa tua. Nessuno troverà più Bianca.» «Lì c’è da mangiare e da bere», disse l’uomo indicando un angolo dove brillava una ciotola piena d’acqua con accanto un paio di galline morte. «Ci vediamo domani notte, quando avrai modo di decidere.» La testa ti girava. Chi era Bianca? Cosa stava succedendo? Un calore insopportabile ti ardeva dentro mentre mani e piedi artigliati si ricoprivano di lunghi peli neri. La schiena si inarcò in angoli impossibili e cercasti di urlare la tua impotenza producendo solo un lungo ululato. «Se vorrai potrai tornare a cercare gli appunti di tuo padre il modo di restare totalmente umano, oppure, due notti al mese, potrai vivere con me su un altro piano della stessa realtà. Un piano in cui sarai libero di ululare alla Luna, cacciare tra i boschi in un corpo agile e feroce, senza remore e confini morali e materiali, libero come non lo sei mai stato, senza rimorsi, senza pastoie.» «Domani sarà ancora Luna piena e andrò a caccia. È un pezzo che non lo faccio. Non sai cosa si prova. E sono sicuro che sarai in mia compagnia. Io ho già deciso. Non aspetto che te.»

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