Cuore di Ghiaccio

                    Cuore di ghiaccio


 Si trascinò carponi, nel fango, al buio. Non osava alzare la visiera sporca di terra per vedere meglio il terreno. Se l’avesse fatto si sarebbero accese delle piccole luci interne e Darko non aveva nessuna intenzione di rendersi visibile. Non ora, non prima di capire cosa fosse successo. Nello zaino di supporto dell’armatura bianca da combattimento, l’impianto che forniva dati in tempo reale era stato distrutto da una scheggia. Niente rilevazioni ottiche, niente rilevazioni agli infrarossi, nessuna visione notturna potenziata. Non conosceva neanche più il livello di energia di cui disponeva. Il casco antiproiettile era integrato con il resto e non se lo sarebbe tolto. Non in zona di combattimento. Non aveva neanche più contatti radio. Era solo. Rotolò dentro una buca e scivolò nella neve e nel fango fino alle ginocchia. Lì, in piedi come il relitto di una statua dimenticata contro il cielo scuro, si chiese di nuovo cosa ci facesse in quel luogo dimenticato da Dio. Il contatto con il resto della sua squadra si era perso poco prima, nel bagliore del tramonto. L’attacco russo era stato improvviso e brutale. Stava avanzando con gli altri quando il terreno intorno era esploso verso l’alto. Una pioggia di missili aveva eruttato l’inferno. Grida, urla di dolore soffocate dal rombo delle esplosioni, un ricadere di terra, fango, brandelli umani che l’avevano ricoperto in pochi secondi. Era svenuto per lo spostamento d’aria e quando era tornato in sé, si era accorto di essere l’unico sopravvissuto. Un silenzio assoluto lo circondava. Dalla coltre bianca emergevano resti umani e chiazze di sangue che la neve aveva già in parte solertemente ricoperto.Doveva essere rimasto senza conoscenza per alcune ore. Fece un rapido controllo. Niente di rotto. Poteva muovere gambe e braccia, nessun dolore periferico se non quelle che poteva stimare come contusioni in tutto il corpo e qualche costola rotta. Intorno, alla poca luce che rimaneva sospesa in aria prima della notte, vedeva solo cadaveri. Pezzi degli uomini e delle donne con cui aveva parlato fino a pochi minuti prima. Quaranta persone. Carne da macello. Tutto il suo plotone. Era rimasto acquattato, senza muoversi. Poi era arrivata la notte. Un ufficiale senza uomini. Cosa ci faceva lì? Era partito da Bratislava assieme al corpo di armata Slovacco due mesi prima, nel tentativo di contrastare l’avanzata russa sui monti Tatra. La Polonia stava ancora resistendo, ma dopo tre anni di guerra, aveva perduto tutto il territorio ad est della Vistola, a nord fino a Danzica e a sud fino a Cracovia. Un inverno precoce aveva imbiancato le alture e ridotto le strade a sudici tratturi. La sua missione, controllare il grado di penetrazione dei russi alle pendici del monte Tatra. Non impegnare il nemico se possibile. Controllare e riferire. Erano stati dotati delle ultime tute da combattimento Nato. Leggere, potenti. Quasi invisibili nella neve. Un esoscheletro che li avrebbe fatti camminare senza fatica e correre senza sforzo. Almeno fino a quando fosse durata la carica delle batterie. Due piccole mitragliatrici a mirino laser montate sulle spalle, un lanciagranate parallelo all’avambraccio sinistro. Controllare, riferire, in caso impegnare il nemico solo per fuggire e avvertire il comando. I droni dell’alleanza venivano regolarmente intercettati dalle postazioni russe e i satelliti non erano di aiuto avendo un gran da fare per controllare il grosso delle azioni sul campo di battaglia che ormai si stava estendendo sull’Europa di giorno in giorno. Come al solito toccava alla fanteria strisciare fino alle linee nemiche. Sopra di lui apparvero le prime stelle in quella notte senza luna. Certo di essere coperto dalle alte sponde della buca, alzò la visiera. Il cielo era bellissimo, nero e punteggiato di luci. Ruotò il corpo provocando un profondo risucchio quando si mosse nel fango. Si appoggiò alla sponda viscida per occhieggiare sopra il margine sfrangiato del terreno. Una nevicata leggera e fitta offuscava la vista ma gli parve di intravedere sulla sua destra, lontano un paio di chilometri, un casolare diroccato alle pendici di un bosco. Niente altro di visibile intorno. Riabbassò la testa. “Pensa”, si disse, “pensa!” Senza contatto radio e privo dell’aiuto dei commilitoni, era praticamente perduto. I russi, la cui presenza erano stati inviati ad investigare, c’erano e come. Li avevano intercettati e distrutti. Tutti. Meno lui, l’unico ufficiale sopravvissuto. E questo era un problema. Se il nemico si fosse accorto che era ancora in vita, le sue ore sarebbero state contate. L’ordine del comando russo, che ormai tutti conoscevano, era perentorio; “uccidere per primi tutti gli ufficiali e disgregare la catena di comando.” I bombardamenti non risparmiavano niente e nessuno. Dopo aver esaurito i missili di precisione nella prima parte della guerra, i russi erano ricorsi agli armamenti meno specializzati, ai bombardamenti indiscriminati da alta quota, alle artiglierie che colpivano senza risparmio tutte le città che intendevano conquistare. Il loro obiettivo si era chiarito lentamente nel corso di quella che a detta del Cremlino, era iniziata come una “operazione militare speciale”. Distruzione. Terrore. Evacuazione. Conquista. Non impiegavano forze di occupazione. Non dovevano tenere a bada popolazioni vinte. Semplicemente le “inducevano” a spostarsi in massa verso ovest, ottenendo così il duplice effetto di prendere possesso di macerie svuotate dagli abitanti senza temere guerriglie di resistenza e indurre i paesi alleati dell’Ucraina ad accogliere ondate gigantesche di profughi che ne piegavano la logistica e le risorse. Poi, con calma, trasferivano popolazioni russofone nei territori conquistati e continuavano verso ovest l’opera di annientamento. L’Ucraina era una distesa di macerie sulle quali si era già insediato un sedicente governo di pacificazione. Un governo fantoccio, ispirato dai bielorussi che dopo un anno di tentennamenti si erano schierati anima e corpo con Putin nel suo sogno revanscista. Tra le strade di Bratislava, nei bar, dovunque, si vociferava di un patto segreto tra Usa e Russia sul non utilizzo di armi nucleari al fine di evitare un armageddon planetario e in effetti fino a quel momento, la battaglia si era svolta sul campo europeo con l’utilizzo delle cosiddette armi convenzionali. Dopo il primo anno di guerra, la Nato era scesa in campo secondo la teoria della risposta flessibile. Darko sorrise tra se. La Risposta flessibile… In pratica si trattava di “contenere” l’avanzata russa in modo da far pagare al nemico un prezzo economico troppo alto per poter essere considerato conveniente. Stava di fatto che in tre anni di guerra, la devastazione era continuata in Europa senza accennare a terminare, l’esercito invasore sembrava poter rimpiazzare i soldati caduti con un magazzino inesauribile e lui si trovava lì, in piedi in mezzo alla neve e al fango nella terra di nessuno senza sapere cosa fare. Doveva assolutamente raggiungere le linee polacche, ma dov’erano? Senza l’ausilio del gps e delle altre funzionalità della tuta, al buio, circondato da cadaveri, non aveva neache idea se l’attacco russo fosse partito da una direzione o da un’altra. C’era un solo modo per scoprirlo. Ragiungere il casolare possibilmente senza farsi scoprire e mettersi in contatto con il comando. Se fosse stato abitato da amici, gli avrebbero fornito aiuto. In caso contrario, li avrebbe obbligati con l’aiuto della tuta. Quando si girava sentiva che i servomotori fissati sulle spalle funzionavano e poteva ancora attivare i mirini laser con un movimento del polso. All’interno della profonda buca, fece qualche prova. I suoi sistemi di armamento erano attivi. Riabbassò la visiera dopo averla pulita sommariamente. Scavalcando la fossa, iniziò a strisciare nella fanghiglia grigiastra. La leggera nevicata si era trasformata in una valanga di fiocchi bianchi, larghi, pesanti… Meglio. Coperto di melma fredda era virtualmente invisibile a eventuali sensori a infrarossi. Con la mano guantata si ripuliva la visiera a intervalli in modo da vedere quel tanto che bastava a proseguire in direzione delle mura scrostate della fattoria. Perché di quello si trattava. Un basso recinto che superò agilmente lo confermò nell’idea. Un campo di patate. Sembrava impossibile che ancora esistessero contadini nella zona, ma forse la guerra non era arrivata fino a lì. Quello di cui erano stati vittima era stato sicuramente un attacco missilistico comandato da lontano. Una macchia rossa di rilevazione termica su qualche schermo e via con il lancio. Civili, militari, per i russi non faceva differenza. Il terreno su cui si trovava era prossimo alla loro zona di espansione e quindi chiunque vi si trovasse doveva essere bombardato, terrorizzato, distrutto, fino a spingere i pochi superstiti a scappare. Poi sarebbero arrivati i blindati e le truppe a ripulire la zona. Per un attimo Darko ebbe pietà per quei poveretti che non ancora investiti direttamente dal fronte pensavano di continuare a coltivare la terra come se passare da un governo ad un altro non facesse alcuna differenza. Un lamento lo fece acquattare a terra. Veniva da destra, vicino al muretto di una porcilaia. Dopo qualche secondo si ripetè. “Pomoc… pomoc!” Chi chiedeva aiuto? Si sporse cautamente. Un uomo, un soldato reso irriconoscibile dalla copertura di melma, giaceva disteso su un fianco e alzava una mano verso di lui. Nessun segno di arma, nessuna tuta mimetica. “Pomoc… AMICO!” Un polacco? L’armatura da combattimento l’aveva certamente identificato come appartenente alla Nato e probabilmente quel residuo d’uomo era un po’ che lo stava osservando, aspettando che si avvicinasse per chiedere aiuto. Il polacco era messo male. Da quel che poteva vedere aveva mezzo busto e il braccio sinistro schiacciato sotto il rottame di un camion e la chiazza rossastra attorno al bacino indicava un versamento che l’avrebbe portato alla morte in pochi minuti. Intanto però chiedeva aiuto. Che poteva fare? “Vuoi un po’ d’acqua?”, chiese nel suo polacco approssimato. L’altro portò la mano destra all’orecchio facendo intendere che non capiva. Darko sospirò. Maledetta guerra. Avrebbe dovuto sollevare il casco o almeno la visiera per portare conforto a quel morto vivente. E lo fece. Non sentì neanche il fischiare del proiettile blindato che gli sfondò il cranio. Crollò all’indietro senza poter vedere il sorriso feroce e falso dell’uomo mentre sgusciava fuori da sotto il camion. Da una finestra dell’edificio diroccato arrivò distinto un grido di vittoria. “ Urra, te l’avevo detto che era scampato un ufficiale!” “Hai ragione Dimitri, ma senza il mio trucchetto non l’avresti mai preso”, rispose l’altro in piedi dinnanzi alla loro vittima.” Hanno tute potenziate che fanno paura.” “Vero, ma è il cuore da mammoletta che li frega” sghignazzò l’altro ritirandosi al buio dell’edificio in attesa del prossimo agguato. Ricominciò a nevicare. Più fitto.