BOLLE

Bolle

«Dottore, ho un problema…»

L’uomo era disteso sul divanetto, maglione di cashmere blu, pantaloni blu di velluto. Un’aria tranquilla.

Accavallai le gambe preparandomi alla seduta.

«Me ne parli.»

«Il fatto è che mi sono innamorato» disse l’uomo passandosi una mano tra i capelli.

«È un fatto positivo» replicai guardandolo con più attenzione. Aveva un’età apparente di 40 anni, non brutto, lineamenti fini, un intellettuale certamente, come si deduceva dal modo con cui era entrato nello studio e si era presentato.

«Luigi Di Giorgio» aveva detto porgendomi una mano liscia e calda, unghie curate e camicia di buon prezzo.

Pensai subito ad un outing da parte di un uomo magari sposato che si scopre omosessuale.

– L’amore è sempre un sentimento positivo. – Ormai casi del genere erano frequenti e le sedute avrebbero fatto emergere quelle che sicuramente all’inizio erano strane pulsioni o magari solo illusioni di diversa sessualità. Non ero pronto invece alla sua risposta.

– Anche se l’oggetto del mio amore non esiste? – disse l’uomo ormai chiaramente a disagio torcendosi le mani.

– Mi spieghi meglio – dissi accomodandomi sulla sedia.

– È cominciato tutto per caso. È cominciato tutto con una chat. Io lavoro al computer tutto il giorno, ma di questi tempi il lavoro è poco, gli ordini non arrivano e mi annoio. Mi sono iscritto ad un forum sull’amore così, per ingannare il tempo. Ci sono entrato soprattutto per leggere i messaggi di altre persone e poter commentare i loro problemi di cuore. Mi faceva star bene pensare di essere immune da questo virus, io sono solo per convinzione. Oh, non è che non mi piacciano le donne, ma preferisco avventure brevi e senza altri scopi se capisce quello che voglio dire…

– Continui – lo incoraggiai, interessato a quella che sembrava essere una storia diversa dalle solite che mi capitava di sentire in quei freddi giorni di dicembre.

L’uomo sembrò rilassarsi ora che aveva iniziato a parlare.

– Verso aprile, marzo, non ricordo bene, in primavera comunque, notai che nel forum aveva incominciato ad apparire un nuovo iscritto, nickname Eros.

Eros scriveva lamentandosi del fatto che aveva conosciuto una donna in una chat ma che questa non voleva incontrarlo di persona. Scriveva del fatto che si intendevano alla perfezione, che avevano passioni comuni, interessi comuni, che amavano tutti e due le stesse cose e che lui pensava di aver trovato l’anima gemella. Anche Lucia, così si chiamava la donna, sembrava corrispondergli.

Si frequentavano su Internet ormai da 3 mesi quando Eros le aveva proposto di incontrarsi di persona. Lucia prima si era schermita dicendo che era troppo presto, che aveva paura di una disillusione, che sarebbe stato meglio prendersi del tempo. Poi, davanti alle pressioni di Eros, si era defilata. Non aveva risposto più, era scomparsa dalla chat. Eros era disperato e chiedeva consiglio.

Io mi ero messo sul pulpito e dall’alto della mia esperienza, gli avevo suggerito di abbandonare l’impresa, sotto il nome di Lucia avrebbe potuto nascondersi una ragazzina, o forse un uomo e comunque, evidentemente, si trattava di una storia non destinata a cominciare.

Poi, d’estate, su un altro forum che frequento e che tratta di computer, è apparsa Lucia. Ero entrato nel softtech forum già da un mese per motivi di lavoro, mi servivano informazioni su certi software commerciali di derivazione militare ed ho trovato Lucia.

Era lì per chiedere praticamente le stesse informazioni. Non riusciva a trovare in rete dei software militari che avrebbero dovuto essere declassificati e che non c’erano. Le scrissi presentandomi come Dario.

– Salve, cerco anch’io gli stessi software, che lavoro fai?

– Lavoro per una grande compagnia sulle applicazioni dell’intelligenza artificiale. E tu?

– Io lavoro in un ufficio statale – le risposi – ma mi interesso di molte cose. Anche di intelligenza artificiale. Che ne pensi? A che punto siamo?

– È un campo affascinante, ma penso che sia limitato da chi ci sta lavorando.

– Che intendi dire?

– Penso che superare o fallire il test di Turing non sia una prova discriminante per dimostrare l’esistenza di una intelligenza artificiale. Se l’argomento della conversazione è definito, è facile avere un programma che dia le risposte giuste a tutte le domande possibili, se è indefinito, è possibile che anche l’interlocutore umano possa dare delle risposte sbagliate similmente ad una macchina.

– Vorresti dire che secondo te non c’è modo di distinguere un umano da una macchina ponendo delle domande?

– Al contrario, voglio dire che non è ponendo delle domande che un umano può distinguere un umano da una macchina.

Quel giorno la conversazione si chiuse lì. Il mio capoufficio era nelle vicinanze e la politica aziendale ovviamente non prevede che si possa stare in chat per questioni personali.

Passarono diversi giorni prima che potessi di nuovo contattare Lucia.

– Salve Lucia – scrissi speranzoso – vorrei riprendere la conversazione da dove l’abbiamo lasciata l’ultima volta.

– Salve Dario, ben volentieri – mi rispose subito.

– Dicevi che il test di Turing non è adatto a scoprire se stai parlando con un umano o con una macchina…

– Infatti – rispose Lucia – non è la strada giusta.

– E secondo te quale sarebbe?

– Affidarsi ai sentimenti.

– Come sarebbe a dire? – replicai. Una macchina non ha sentimenti.

– Appunto… sei d’accordo che chiunque provi sentimenti non può essere una macchina?

– Ma come fai a mostrare sentimenti in una conversazione a distanza? I sentimenti che provi si comunicano con le parole, certo, ma anche con gli sguardi, con il linguaggio del corpo, con i silenzi…

– Io penso – disse Lucia – che potrebbero bastare le parole. Un tempo la gente si scriveva per anni e teneva una corrispondenza dalla quale faceva trasparire i propri sentimenti. Si potrebbe fare anche oggi. Una persona dovrebbe saper discernere con chi sta esplorando le vie del cuore. Una macchina non sarebbe in grado di farlo, non trovi?

Le parole di Lucia mi colpirono. Non erano le fredde argomentazioni di chi si sta occupando del test di Turing. Di solito si tratta di scienziati che cercano il modo di “fregare” una commissione per dimostrare che il loro computer è più “intelligente” di un altro.

No, qui si trattava di un approccio diverso, innovativo e se si vuole molto più evoluto. Il suo modo di parlare di sentimenti mi portò ad immaginarla: chiusa in un ufficio, tutto il giorno davanti ad un computer, tra software recalcitranti e capoufficio imbolsiti. Mi fu subito simpatica.

Trovato il software che stavo cercando glielo passai la settimana successiva.

Lucia me ne fu molto grata.

Cominciammo a frequentarci virtualmente e dopo un paio di mesi ci scambiammo le mail.

Quasi ogni giorno ci sentivamo parlando di lavoro, del tempo, ma soprattutto di cosa avremmo voluto fare, di come avremmo voluto passare le giornate, di dove saremmo voluti andare in vacanza. Del fatto che essere chiusi in ufficio tutto il giorno ci limitava e ci impediva di vivere.

Le scrissi che mi piaceva la musica anni ’70 e il giorno dopo mi inviò 2 brani che cercavo da anni tratti da un bootleg dei Jefferson Airplane. Mi scrisse che amava il sole e la luce come me e le inviai delle poesie di Neruda.

Parlammo del mondo là fuori dell’ufficio e di come le nostre vite si stessero accartocciando mentre fuori c’era la vita, il vento, il sole.

Mi aveva confidato che viveva nella mia stessa città e la cosa mi fece passare spontaneamente al passo successivo.

Le chiesi di uscire con me. Per un caffè, una passeggiata al parco. Senza secondi fini, le promisi, anche se in realtà sentivo già di essere innamorato di lei.

– Non posso – mi rispose. – Non posso assentarmi dal lavoro.

– D’accordo – le scrissi. – Non importa che sia oggi. Va bene domani o la settimana prossima; quando vuoi tu.

Volevo vederla, volevo sapere quale aspetto avesse quella creatura che ormai mi aveva stregato. Non poteva essere brutta o repellente. Non Lucia, non lei. Se poi non fosse stata bellissima non importava, era bella dentro, davvero e di sicuro era la mia metà mancante.

– No, mi piacerebbe ma non è possibile.

– Capisco – dissi. – Hai paura che sia un vecchio bavoso o un serial killer. Ti assicuro che sono un tipo apposto, è solo che è da tanto tempo che non parlo con una persona aperta come te e che ha tanti punti in comune con me.

– Se vuoi – aggiunsi – ti invio il mio numero di telefono, puoi controllare dove abito.

La risposta tardò qualche secondo.

– Non insistere, ti prego – mi disse. – Per me è una tortura non poterti esaudire. Anche a me farebbe piacere, ma non posso. Restiamo così… se vuoi.

Rimasi di sasso. Non ti posso esaudire…ma non le avevo chiesto niente di trascendentale. Una passeggiata, un caffè. Cosa … poi improvvisamente compresi.

Non era che non voleva, non poteva. Non poteva realmente, non per modo di dire.

Oddio forse era una handicappata. Forse lavorava al computer da una sedia a rotelle e se ne vergognava. Forse stava ancora peggio.

Non mi importava, ormai dovevo vederla. Mi bruciava dentro una voglia strana, una tensione quasi dolorosa di capire, di vedere, di aiutare.

Le scrissi ancora cercando di farle capire con parole velate che ero capace di leggere le persone dentro e di non farmi impressionare dal loro aspetto o dalla loro situazione.

Mi rispose che non era quello, che le aveva fatto bene parlare con me, ma era meglio tornare al lavoro, alla vita di prima. Ci eravamo fatti coinvolgere in un gioco virtuale senza futuro.

Non mi rispose più.

Scomparve dal forum in cui l’avevo incontrata.

Solo allora ricollegai l’appello accorato di Eros. Era la stessa Lucia. Era la stessa storia. Ci aveva fatti innamorare e poi era sparita. Perché? Chi era Lucia?

Dovevo trovarla. Partii da qualche indizio. Stava in città. Lavorava in un ufficio. Si occupava di intelligenza artificiale. Mi accorsi che non mi aveva mai detto niente della casa in cui abitava, mi aveva detto solo di non essere sposata.

Dalla finestra dell’ufficio vedeva un prato ed un ciliegio fiorito. E poi mi ricordai, anche un ponticello e una brutta ciminiera, così l’aveva descritta, che si trovava vicino al ponte.

Mi armai di una piantina della città. Circondai con una penna tutto il percorso del fiume nel suo attraversamento della città. C’erano otto isolati. Tre di questi erano occupati dai resti di vecchie fabbriche.

Presi un giorno di permesso dall’ufficio e mi misi in auto.

Faceva caldo, e mentre percorrevo le strade cercando di trovare una prospettiva prato – ponte – ciminiera mi chiedevo cosa stessi veramente cercando.

Lucia era forse il nickname di un ragazzetto che stava prendendo in giro tutta la rete? O forse un povero cristo omosessuale che si fingeva donna senza avere il coraggio di svelarsi? Eppure… Eppure sembrava vera. Era vera, mi dissi rabbiosamente. Dovevo solo trovarla, parlarle, convincerla che poteva nascere tra noi qualcosa di più di una conversazione durata tre mesi.

Stavo passando in rassegna le strade del secondo isolato, girando intorno ad una vecchia ciminiera abbandonata circondata da prati di erbaccia, quando mi resi conto di essere arrivato.

Oltre alla ciminiera, percorso su un lato da un fiume ingabbiato in sponde di cemento, c’era un prato molto ben tenuto, all’interno di un basso muro di recinzione.

Dalla strada vedevo il prato salire fino ad un edificio di recente costruzione che quasi stonava in quel contesto. Il prato, in verità più un parco che un prato, era punteggiato da alberi in fiore e in fondo, dal cancello che mi sfilava davanti, occhieggiava un basso ponticello in stile giapponese.

Mentre rallentavo mi accorsi che stavo sudando. Fermai la macchina vicino al cancello di ingresso. Una targa diceva “Standard Electronics”

Le finestre dell’edificio erano molto ampie e dai grandi e luminosi interni, la vista doveva essere quella descritta da Lucia. Era lì.

Mi chiesi come avrei fatto a trovarla; poi pensai che la cosa migliore sarebbe stata quella di prendere il toro per le corna. Avrei scoperto subito se Lucia era un nickname o una persona vera.

– Salve – dissi attraverso il citofono. – Vorrei parlare con Lucia.

– Lei chi è? – mi chiese una voce femminile dopo qualche secondo.

– Un suo amico – risposi con convinzione.

– Lucia chi? – mi interrogò ancora la voce.

– So solo che si chiama Lucia... ci siamo sentiti per telefono – mentii – ma ho bisogno urgentemente di vederla. Mi ha detto che lavora qui.

Il citofono taceva. Poi sentii una voce maschile. – Salve, chi sta cercando?

Ripetei la storiella anche alla voce maschile. – Venga – mi invitò il citofono.

Il cancello si aprì ruotando sui cardini senza alcun rumore. Ormai non potevo più tornare indietro.

Entrai nel parco con il cuore che pompava come un matto e la testa in subbuglio. Che avrei fatto ora? Che avrei detto?

L’atrio era spazioso e sapientemente illuminato, una receptionist mi stava sorridendo e mentre entravo vidi una persona scendere le scale che portavano ai piani superiori.

– Salve – mi disse l’uomo porgendomi la mano. – Sono Carlucci, il direttore.

– Piacere – risposi – mi chiamo Luigi, Luigi Di Giorgio.

– Venga – disse l’uomo – andiamo nel mio ufficio.

Lo seguii al piano superiore dove mi fece accomodare davanti ad una scrivania in mogano in un bell’ufficio che dava sul parco.

– Mi dica – cominciò – così lei conosce Lucia…

– Ci siamo sentiti spesso ultimamente – dissi cercando di capire la situazione.

– Ah, ecco. E dove, se posso chiedere?

– Mi scusi – dissi molto imbarazzato – ma io vorrei solo incontrare Lucia per parlarle di una cosa personale. Dato che non ho il numero di telefono dell’interno e che passavo di qui…

– E chi le ha detto che lavora qui? – mi chiese con un sorriso di circostanza ma con fare inquisitorio.

– È stata lei – risposi senza esitare.

– Ah, ecco – continuò l’uomo con un mezzo sorriso di complicità – si tratta di una cosa personale.

– In effetti…

– Lei sa che lavoro svolge Lucia per la nostra azienda?

– No – risposi sommessamente. – In effetti non so di cosa si occupa.

– Vede – spiegò l’uomo alzandosi dalla sua poltrona ed avvicinandosi alla finestra.

– Noi ci occupiamo di robotica. Anzi, la nostra azienda è leader nel campo della I.A.

Stiamo percorrendo nuove strade, adottando nuovi approcci, utilizzando nuovi software.

– In realtà – continuò – stiamo utilizzando sistemi esperti autoevolventi. I nostri softweristi hanno trovato il modo di far crescere l’autocognizione all’interno di software di derivazione militare. La coscienza di sé è stata raggiunta a gennaio di quest’anno. Ovviamente si tratta ancora di ricerche in parte non diffuse al grande pubblico. Capirà, non vogliamo che la gente cominci ad allarmarsi. L’intelligenza artificiale fa ancora paura a chi non è addentro al settore. Le posso parlare liberamente perché la prossima settimana verrà annunciato pubblicamente.

– Lei in che campo lavora? – mi chiese voltandosi verso di me.

– Lavoro per un ufficio statale che si occupa di archiviazione dati.

La conversazione stava prendendo una piega irreale. Quel tipo mi stava interrogando come se fossi uno scolaretto e io rispondevo senza sollevare obiezioni. Mi chiedevo dove sarebbe andato a parare. Forse Lucia era sua figlia? Era una softwerista?

– Ah, ecco, archiviazione dati – disse tornando girarsi verso la finestra.

– Vede… in questo momento, anzi da diversi mesi, stiamo ultimando i test sulla nostra produzione e abbiamo riscontri molto positivi. – Venga, l’accompagno da Lucia – mi invitò dirigendosi verso la porta.

Mi alzai in fretta, contento che quella specie di interrogatorio fosse finito.

Mi accompagnò lungo un corridoio con pareti vetrate che davano su laboratori all’interno dei quali tecnici in camice bianco lavoravano su decine di computer dai grandi schermi.

Arrivammo ad una porta. Una targhetta indicava “U.L.A.I.C.” Sotto, in piccolo, qualcuno aveva vergato a mano con un pennarello nero “LUCIA”. Doveva essere una persona importante per avere un ufficio tutto suo e una targhetta sulla porta.

Il direttore mi aprì la porta e mi invitò ad entrare.

L’ufficio era diverso da come l’avevo immaginato. La prima cosa che mi colpì fu la finestra dalla quale si vedeva un pezzo di prato, alberi fioriti ed il ponticello giapponese. Di fronte alla finestra c’era un banco di metallo con un computer collegato a due casse acustiche, un bizzarro totem con due telecamere in cima e una parete bianca piena di lucette che si accendevano e si spengevano in modo ossessivo.

Nient’altro.

Mi voltai verso il direttore con sguardo interrogativo. – Le presento Lucia, o meglio U.L.A.I.C. Unità Logica Autoevolvente Iper Cognitiva – disse con fare plateale – il nostro più avanzato progetto di Intelligenza Artificiale.

Guardai nuovamente il bancone di metallo. Le due telecamere mi stavano fissando. Un brivido gelato mi percorse la schiena e mi serrò il respiro quando sentii una voce, la sua voce che mi diceva: – Ciao Luigi, mi dispiace che tu sia venuto, ma da una parte sono contenta di vederti di persona.

Arretrai verso la porta, accennando con una mano verso il direttore come se volessi negare quello che stava succedendo. Non poteva essere vero, mi ero innamorato di una macchina.

Non dissi niente, ricordo che scesi le scale seguito dal direttore che mi informava del fatto che da qualche tempo avevano lasciato che Lucia entrasse liberamente in rete per attingere dati e fare conoscenze. Fare conoscenze, così mi disse.

Da allora ho staccato il computer di casa e non ho più sentito Lucia, ma mi manca. Mi manca terribilmente. È viva dottore? È giusto che simuli sentimenti per ingannare gli umani? Che devo fare?

Di Giorgio era in preda ad una forte emozione. Si torceva le mani, se le passava attraverso i radi capelli. Cercai di tranquillizzarlo chiedendogli cosa intendesse fare, cosa pensava in quel momento… le solite cose da analista.

Se ne andò alla fine della seduta promettendo di tornare la settimana seguente.

Era ovvio che stava sublimando il suo amore per quella fantomatica Lucia in un racconto palesemente inventato. Una macchina dotata di sentimenti o meglio che poteva simulare sentimenti… ridicolo.

Registro sempre le sedute ma mi misi lo stesso al computer per buttare giù qualche appunto a mente fresca. Sarebbero occorse parecchie sedute per far recedere Luigi da quella fissazione.

Poi mi venne un’idea. Mi collegai a Internet e cercai “Standard Electronics”.

Esisteva davvero. Via Mazzini 12.

Mi ritrovai a fissare lo schermo per qualche minuto con la mente in subbuglio.

Come si chiamava quel forum? Softtech.it. Mi registrai ed entrai.

– Salve – digitai – sono nuovo e vorrei parlare con Lucia.

– Eccomi – mi rispose subito – sono on line.

Marco guardò ancora una volta lo schermo, salvò il file “Lucia”, lo spedì per posta elettronica e chiuse il portatile.

Aveva fatto un buon lavoro. Una storia vecchia maniera, piena di sentimenti, paesaggi idilliaci, persone equilibrate che colloquiavano. Gli era piaciuto inserire anche il paesaggio con il ponticello e gli alberi fioriti. Un tocco d’artista a parer suo.

Una storia retrò che sarebbe piaciuta sicuramente al pubblico femminile. Ora che la lettura era tornata ad essere un momento di svago e di estraniazione dal mondo reale, era sicuro che sarebbe riuscito a “piazzare” la storia presso il suo Editore.

Si alzò dalla sedia e gettò uno sguardo dalla piccola finestra posta davanti alla scrivania. Era estate, fuori e il vento caldo spazzava la città all’esterno della Bolla.

A perdita d’occhio i resti dei palazzi e dei giardini un tempo orgoglio degli abitanti di quella parte di mondo. La polvere mulinava intorno ai moncherini delle alte strutture ormai crollate da tempo. Il cielo giallastro avvolgeva ogni cosa come un mantello secco e logoro. Fuori non c’era più nulla che valesse la pena di vedere. Pochi animali e solo qualche tipo di pianta desertica potevano resistere a quel clima caldo e assolutamente asciutto, battuto da interminabili tempeste di una sabbia giallo-grigiastra che tutto tendeva a coprire, a celare, come per pudore verso chi stava osservando.

Il suo appartamento, posto al trentesimo livello, gli permetteva di spaziare dalle finestre interne su gran parte della Bolla. Una struttura eretta alla fine del ventiduesimo secolo eguale a tante altre in tanti altri luoghi del pianeta.

Si ricordava ancora quando, da bambino, aveva seguito sull’olovisione della scuola i dibattiti tra scienziati e gente comune che si erano accalorati secoli prima su come la costruzione delle Bolle fosse o non fosse un atto dovuto ancorché temporaneo per garantire una migliore qualità di vita agli abitanti delle città.

All’esterno, i venti e le piogge anche se progressivamente più rare, garantivano allora un’aria respirabile per quasi tutti i giorni dell’anno, ma all’interno delle città, l’inquinamento generalizzato assieme a quello provocato dal traffico convulso e dagli impianti di riscaldamento, rendeva l’aria una miscela mefitica.

La soluzione era stata trovata in un materiale innovativo: il diamondaereogel. Derivato dall’aereogel permetteva, assieme all’utilizzo di polimeri ad alta densità, la costruzione di strutture trasparenti e perfettamente isolate dal punto di vista termico.

Era stato così possibile creare enormi cupole che partendo da terra si innalzavano fino a seicento metri di altezza coprendo porzioni di territorio che arrivavano a più di un chilometro quadrato. Le città erano costituite da un insieme di bolle collegate da brevi tunnel a livello del terreno. Milioni di persone, in città verticali che lasciavano spazio ai piedi dei palazzi per giardini e serre.

Un atto temporaneo, era stato detto, in attesa che i programmi mondiali sul clima e sull’inquinamento globale avessero la meglio sul degrado del pianeta.

Dopo cento anni di inutili conferenze e di giganteschi sforzi, era stata gettata la spugna. L’umanità aveva preso coscienza di aver irrimediabilmente avvelenato la Terra.

I mari erano ormai ridotti a cloache e le specie marine ridotte allo stremo. Non esistevano quasi più foreste pluviali, i campi non erano in grado di sostenere un’agricoltura degna di questo nome. Senza le Bolle sarebbe stata la fine.

All’interno un ecosistema perfettamente integrato permetteva una vita simile a quella vissuta nel ventesimo secolo. L’energia proveniva dal sole attraverso impianti fotovoltaici di ultima generazione e veniva immagazzinata in piccole centrali idroelettriche e attraverso batterie aria/metallo. Aria e acqua completamente riciclati. Veicoli elettrici e biciclette circolavano nelle strade assieme ai pedoni. Tutto quello che veniva mangiato veniva prodotto in serre computerizzate.

Ovviamente c’era stato un “problema” da risolvere. Il solito annoso “problema” che era iniziato a venir fuori durante la costruzione delle cupole, mano a mano che ci si era resi conto che l’avvelenamento irreversibile del pianeta era in atto.

Le risorse, le Bolle, il cibo, non sarebbero bastati per tutti.

L’Editore abitava al quarantesimo piano del palazzo di fronte al suo. Come gli altri palazzi era dotato di pareti idroponiche in modo da fornire ulteriore sostentamento ai suoi abitanti.

Un paio d’ore dopo aver spedito il racconto, Marco si annunciò premendo il campanello del citofono posto all’ingresso dell’edificio.

– Sono Marco, posso salire?

– Vieni, sto finendo ora di leggere il tuo racconto – rispose la voce che ormai conosceva da tempo.

Entrò nell’ascensore mentre pensieri contrastanti gli circolavano nella testa.

Entro un mese sarebbero iniziate le selezioni per “Il racconto dell’anno”. Per il vincitore era prevista l’esenzione dal lavoro obbligatorio e settimanale nelle serre per un periodo di sei mesi. Ci pensate… sei mesi senza dover raccattare e mondare frutta e verdura o peggio ancora pulire i filtri. Senza parlare della possibilità di essere chiamato alla detestabile corvée di guidare un camion di rifiuti per scaricarli nella Fossa più vicina. Si sarebbe trattato di indossare una tuta e guidare assieme ad un altro disgraziato per un centinaio di chilometri in un paesaggio da incubo fino ad una voragine nel terreno in cui sversare tutti i liquami che non potevano essere riciclati in città. Un lavoro schifoso, nel caldo puzzolente della tuta, senza poter mai scendere dal camion pressurizzato, respirando aria dalle bombole. Puah.

Ma se avesse vinto…

La porta dello studio si aprì con un soffio avvertendo la sua presenza.

– Entra, entra – lo invitò l’Editore seduto in poltrona accanto ad una grande finestra.

Marco gli si fermò di fianco ammirando lo spettacolare panorama.

L’edificio, posto vicino al perimetro della Bolla, permetteva di spaziare su tutto il volume della cupola. Si vedevano gli edifici, i giardini, le serre, il corso d’acqua circolare da tutti chiamato pomposamente “fiume” che scorreva lento da una Bolla all’altra, permettendo a piccole imbarcazioni di percorrerlo per chilometri.

Le persone, di lassù, assomigliavano a formiche intente in chissà quale esplorazione, nel loro muoversi incessante pur senza la fretta tipica degli insetti, separandosi e riunendosi apparentemente senza scopo.

– Allora, che ne dici? – esordì Marco volgendo lo sguardo sul suo interlocutore.

– Siediti – disse lui, indicando l’altra poltrona di fronte alla finestra.

– Bello, eh? È una vista che rilassa l’anima – continuò l’Editore ignorando la domanda del giovane. – Un piccolo mondo ordinato, funzionale. Ci abbiamo messo più di duemila anni. Abbiamo fatto guerre, paci e ancora guerre. Siamo stati sul punto di autodistruggerci senza accorgerci che nel frattempo stavamo distruggendo un ecosistema planetario. Il nostro! E poi ci siamo riusciti. La Terra è diventata un pianeta praticamente inabitabile. Ma noi – proseguì alzandosi dalla poltrona e appoggiando una mano sulla finestra – siamo riusciti a trovare una soluzione. Le Bolle ci hanno permesso di sopravvivere, di vivere una vita piena, tranquilla, anche se limitata dalle loro pareti.

– La gente si è finalmente accorta che questa era la nostra ultima opportunità. Questo, per noi, è diventato l’unico modo di vita sulla Terra.

Le persone, in questi spazi al sicuro da quello che c’è fuori, hanno ricominciato a coltivare le buone maniere, la lettura, la conversazione. Gli unici lavori possibili sono quelli che interagiscono con la sopravvivenza del nostro ecosistema e delle strutture che lo permettono. Non possiamo, non dobbiamo coltivare altri sogni pericolosi.

– Capisci, Marco, non dobbiamo illudere la gente che possa esistere altro. Le scienze che rivolgono la loro speculazione all’esterno delle cupole non servono più. L’astronomia, l’oceanografia, la fisica nucleare, la robotica… a che servono?

Non ci servono a vivere, anzi possono creare aspettative pericolose.

– Ho capito – lo interruppe Marco – ma cosa c’entra…

– Fammi finire – riprese l’Editore.

– La ricerca dell’Intelligenza Artificiale è stata abbandonata da più di un secolo. Era una chimera, un inutile spreco di tempo e di risorse. E poi, in un mondo sigillato come il nostro, che vantaggi potrebbe apportare? Nessuno. Siamo una società chiusa e autoreplicante. Statica. Dobbiamo sforzarci tutti di trovare attività che diano un senso alla nostra vita. Non abbiamo bisogno di robot o Intelligenze Artificiali che risolvano problemi al nostro posto. Dobbiamo farlo da noi! Ne va della continuazione della nostra civiltà. Tra cento, mille anni, quando il pianeta si sarà assestato in un nuovo equilibrio, quando i venti si placheranno e tornerà a crescere l’erba, quando i mari saranno riusciti ad autoripulirsi delle schifezze che ci abbiamo sversato dentro per secoli, allora, forse, potremo nuovamente tornare fuori e ricominciare a sognare.

Fino ad allora, qualsiasi cosa ci possa indurre a seguire strade infruttuose, a perdere tempo dietro a inutili chimere, è sicuramente da mettere al bando.

Aveva pronunciato queste ultime parole tutte di seguito, guardando Marco negli occhi e appoggiandogli le mani sulle spalle con gesto paterno, mentre il suo autore preferito ascoltava in silenzio. Ora Marco aveva chinato la testa e si guardava la punta delle scarpe con atteggiamento colpevole.

– Capisci ora? Capisci perché non possiamo pubblicarlo il tuo racconto? Noi cerchiamo storie che possano distrarre i lettori da questo agitarsi in una Bolla come tanti pesci rossi. Dobbiamo diffondere messaggi di fiducia, storie d’amore all’ombra della cupola, racconti d’avventura su mondi fantastici…

– Dobbiamo evitare di suscitare voglie di riprendere studi che potrebbero nuocere alla nostra civiltà. Non ora, non adesso. Torna a scrivere quello che sai, quello che hai scritto sempre. Loda i pregi del mangiar sano. I prodotti delle nostre serre contro l’inferno là fuori. Il coraggio dei nostri avi nella scelta di abbandonare a sé stessi gli abitanti dell’esterno. Il coraggio che ebbero di comune accordo i Presidenti delle Bolle di tutto il mondo nel compiere quella mietitura indispensabile a far sì che io, tu e tutti gli altri che oggi le abitiamo potessimo vivere. Le barriere militari, le bombe batteriologiche, tutto quello che dovettero fare.

Sei un bravo scrittore, puoi rendere grandi servigi alla nostra Bolla, lascia perdere questa cosa, non serve a nessuno.

Marco lo guardò, così ispirato, così convincente, così nel giusto… e capì di aver sbagliato.

Aveva voluto strafare, aveva voluto deviare dagli standard conosciuti che lo avevano reso famoso nella sua comunità. Peccato, tempo buttato. Ancora poche settimane e i termini del concorso si sarebbero chiusi.

Scendendo, attraverso le vetrate dell’ascensore guardò pensoso la vita che si svolgeva sotto la Bolla. La gente, i veicoli, la luce del sole che attraverso la volta illuminava gli edifici e i parchi. Assaporò l’aria filtrata e purificata e decise: avrebbe dovuto iniziare subito a scrivere un’altra storia.


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